ANNULLO POSTALE

79° ANNIVERSARIO

SBARCO ALLEATO IN SICILIA

La battaglia di Gela

10-12 luglio 1943

 

    Alle prime luci dell’alba del 10 luglio 1943 gli Alleati, americani, inglesi e canadesi, con un’imponente azione offensiva, definita “Operazione Husky”, iniziarono la Campagna di Sicilia che, oltre ad essere l’inizio della liberazione d’Italia, fu anche l’inizio del crollo del regime fascista prima e di quello nazista dopo. Quel giorno Gela e la sua costa furono l’epicentro di vicende mondiali. La storia di Gela divenne storia nazionale e la storia nazionale e mondiale si fece storia gelese.

    Uno dei tre settori prescelto per lo sbarco Alleato sulla Sicilia sud-occidentale fu quello di Gela con una estensione di circa 40 Km., da Punta Due Rocche del Licatese a Punta Braccetto del Ragusano. Durante lo sbarco tale settore fu subito considerato strategicamente importante per la difesa italiana in quanto era separato fisicamente dalla Piana di Catania dal diaframma collinare del Calatino che era facilmente superabile e che avrebbe dato la possibilità alle Forze americane di arrivare sulla Piana di Catania così da congiungersi a quelle inglesi e canadesi.

    Nonostante l’importanza che aveva il settore di Gela nel contrastare un eventuale sbarco nemico, cosa già a conoscenza delle alte sfere militari italiane, nulla o quasi fu fatto per migliorarne la difesa; infatti, in una riunione a Palazzo Vidoni, tenutasi a Roma nei primi del mese di maggio del 1943 tra i responsabili militari delle Forze Armate, il Gen. Mario Roatta relazionava sulla Sicilia facendo constatare che la difesa costiera era poco densa, priva di artiglierie antinave e di artiglierie contraerea, scarsissima di rincalzi propri e di artiglierie contro-carro, sottolineando quindi che tali deficienze non avrebbero permesso di contrastare uno sbarco o al massimo l’avrebbero potuto ostacolare o ritardare, senza contare il fatto, aggiungeva il generale, che gli Alleati erano largamente forniti di reparti corazzati, di navi e di mezzi speciali da sbarco, a parte la considerazione che si avrebbe avuto a che fare allora con le due maggiori potenze navali del mondo.

    Un altro fattore importante della Campagna di Sicilia fu quello dell’enorme sproporzione di mezzi che esisteva tra gli Alleati e le forze dell’Asse, inoltre, l’Aeronautica Militare Italiana si era ridotta enormemente a causa delle varie situazioni belliche precedenti per cui risultò assente o quasi nei preparativi di difesa e in particolare nel contrastare i convogli alleati verso la Sicilia e durante lo stesso sbarco, tant’è che a Gela, ad esempio, si può benissimo affermare che aviazione e marina, quest’ultima peraltro assente, non ostacolarono il nemico al contrario delle forze terrestri.

CONSIDERAZIONI

    Molti autori hanno scritto sullo sbarco degli Alleati nell’Isola e sulle varie fasi della Campagna di Sicilia, conclusasi con l’occupazione di Messina il 17 agosto del 1943, però, pochi di essi hanno trattato gli aspetti negativi che hanno contraddistinto le Forze occupanti, aspetti che per diversi decenni non sono stati approfonditi a dovere. Ci riferiamo non solo al coinvolgimento della mafia, della massoneria, del separatismo e di personaggi felloni ma anche al cosiddetto “fuoco amico”, americano e inglese, e a diverse stragi commesse dagli americani nel territorio tra Gela, Acate e Comiso a danno di inermi prigionieri, civili e carabinieri (in contrada Passo di Piazza) subito dopo lo sbarco a Gela. E non solo, si racconta che molte donne a Gela, durante l’occupazione americana, furono coinvolte in numerosi stupri dagli occupanti, tant’è che la maggior parte di esse, per evitare di mettere mondo degli orfani di padre, procedette all’uso sistematico dell’aborto clandestino.

    Spesso sui libri si legge che durante lo sbarco americano in Sicilia i soldati italiani si arresero vuoi per codardia vuoi per l’esiguità o esaurimento delle munizioni; falso per quanto riguarda la codardia, vero per quanto riguarda le munizioni. Non risponde a verità che i soldati italiani, in tale occasione, pensarono soltanto a fuggire e che soltanto quelli tedeschi seppero tener testa agli invasori, cosa questa non rispondente a verità. Esistono precise testimonianze che attestano che le quattro divisioni italiane Assietta, Aosta, Livorno e Napoli furono sempre presenti sul campo di battaglia ed operarono in modo da rendere possibili notevoli movimenti tattici. Infatti, ad esempio durante lo sbarco, numerosi e pregnanti furono gli atti di eroismo dei militari italiani, in particolare quelli della Divisione “Livorno”, i quali, anche se per breve tempo, riuscirono a rallentare l’avanzata dell’imponente armata americana; di essi si ricordano il Caporal maggiore Cesare Pellegrini, che trovò gloriosa morte nel fortino di Porta Marina, il S. Ten. Carrista Angiolino Navari che col suo carro armato, nei pressi di Piazza Umberto I, riuscì a impegnare una compagnia di soldati americani, il Mag. Enrico Artigiani, il Col. Mario Mona e tante altre centinaia e centinaia tra ufficiali e soldati che con il sacrificio della loro vita difesero il patrio suolo.

    Ma la motivazione della resa di interi reparti italiani che combatterono strenuamente a Gela, probabilmente fu dovuta anche ad un altro motivo. Lo scrivente, in merito ad una ricerca nell’archivio storico militare di Roma, è nelle condizioni di dimostrare che sicuramente un caso di resa di un reparto italiano, avvenuto nella prima giornata dello sbarco Alleato a Gela, fu dovuto al fatto che gli americani in un’azione di guerra avanzarono dietro una moltitudine di prigionieri italiani, questi ultimi dunque “utilizzati” come scudi umani, tant’è che i nostri soldati allora non poterono fare altro che arrendersi anziché sparare sui loro commilitoni; già lo sbarco sulla spiaggia di Gela era iniziato fin dalle ore 3,00 e posizione su posizione i soldati italiani arretrarono, martellati incessantemente dai cannoni delle navi americane. Mi piace qui reiterare un passo riportato nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” di cui sopra: “…Ore 9,20: il Col. Giuseppe Altini comunica che la 49° btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Una comunicazione di tre righe su una pagina ingiallita dal tempo, a firma di un colonnello dell’Esercito Italiano, rimasta sconosciuta all’interno di un faldone, che mette in luce per la prima volta in assoluto un caso così clamoroso. Certamente questo espediente, purtroppo vincente, nulla vieta a far pensare che sia stato utilizzato dai comandi americani anche in altre occasioni.

    Un altro episodio accaduto ai soldati italiani, presi prigionieri dagli americani dopo la battaglia di Monte Castelluccio dell’11-12 luglio 1943, si riferisce al racconto del Ten. Col. Ugo Leonardi il quale, assieme a diversi ufficiali medici con il bracciale della Croce Rossa Internazionale, fu schiaffeggiato ed umiliato. Solo alcuni di questi episodi sono stati, con molto ritardo e a oltre settant’anni dagli eventi, ricordati e menzionati pur con scarsissima rilevanza.

    L’aver utilizzato soldati prigionieri italiani come scudi umani, quindi, rappresenta un’altra pagina nera dello sbarco Alleato del 1943 in Sicilia che si aggiunge alle precedenti, scritta ancora una volta dai comandi americani in sfregio all’etica militare e soprattutto ai dettami della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra.

    Dopo la pubblicazione di quanto scoperto dallo scrivente, prima sul quotidiano “la Repubblica” edizione di Palermo del 23 luglio 2011 e poi sulla pagina regionale de “La Sicilia” del 12 luglio 2013, mi sembra interessante riportare qui il testo di una e-mail inviatami dal Sig. Pietro Mirabile, in data 30 dicembre 2014, che così recita: “Buonasera, Signor Mulè, le dico subito che non ci conosciamo, il motivo di questa mia è nell’oggetto. Mi spiego meglio!?! Due giorni fa il 28 di Dicembre mio padre avrebbe compiuto 102 anni (è morto nel 2007) così oltre a qualche preghiera per la sua anima ho cercato nella rete notizie sullo sbarco in Sicilia. Tutte le volte che mio padre ne parlava gli spuntavano le lacrime per la rabbia ed il disprezzo che provava per gli invasori.  Mio padre ha fatto la guerra da richiamato ed era sergente maggiore del 18° Comando Brigata Artiglieria Costiera, il 10 Luglio del ‘43 si trovava tra Palma di Montechiaro e Licata, raccontava che nella primavera di quell’anno c’erano stati avvicendamenti nella linea di comando degli Ufficiali superiori, e raccontava sempre che tutta la batteria aveva ricevuto l’ordine di non togliere le cappotte ai cannoni quella notte. Preso prigioniero lo hanno usato come scudo umano fino quasi a Leonforte dove c’erano le retrovie tedesche. Leggendo quello che Voi avete pubblicato ho costatato la verità del suo racconto e non aveva esagerato, infatti a Gela le cose sono andate peggio. Mi auguro di non averLa disturbata con questa mia testimonianza (indiretta di 71 anni fa), Le auguro un sereno e proficuo 2015…”.  Da Palermo Pietro Mirabile”.

    Non ci sono elementi tali da non credere appieno a quanto scrittomi dal Sig. Mirabile sul racconto del padre, quest’ultimo testimone di un sistematico atteggiamento delle truppe americane nell’utilizzare i prigionieri italiani come scudi umani per avanzare più facilmente all’interno dell’Isola. E ciò accadde per circa 100 Km., dall’Agrigentino fino alla cittadina dell’Ennese, passando anche per diversi paesi del Nisseno, Caltanissetta compresa.

    Recentemente, grazie alla segnalazione dell’amico Dott. Marco Piraino, ho avuto notizia di un altro caso, quello di “Portella della Paglia”, frazione del comune di Monreale, che ebbe per protagonista la Medaglia d’Argento al Valor Militare Sergio Barbadoro che per contrastare l’avanzata dei corazzati americani dovette colpire, suo malgrado, anche i prigionieri italiani (catturati sul posto mentre erano intenti a sistemare alcune mine lungo la strada), che erano stati legati davanti ai carri armati e messi ad avanguardia della stessa colonna corazzata nemica (Belden, Adventure in Sicily, in Life, 9 agosto 1943, vol. 15 n. 6, pp. 82-89. La traduzione del pezzo, che testimonia da parte americana il fatto, è riportata in un allegato a C.M.T.P. cit., p. 3. Ivi: “(…) da fonte attendibile, ma non controllata).  

    Quanti giorni impiegarono gli americani per arrivare a Palermo? Dall’11 al 22 luglio sono 12 gg. Quanti giorni impiegarono gli inglesi per arrivare a Catania? Dall’11 luglio al 6 agosto sono 27 gg. Mi convinco sempre di più che ci sono tutti gli elementi per poter riflettere sul caso “scudi umani”.

    Le perdite italo-tedesche nelle due controffensive del 10 e 11 luglio della Battaglia di Gela furono enormi; da Gela fino a Regalbuto (117 Km.), tra morti e dispersi negli 11.440 componenti della Divisione “Livorno”, vi furono 214 ufficiali e 7.000 tra sottufficiali e militari di truppa mentre della divisione corazzata “H. Goering” caddero 30 ufficiali e 600 sottufficiali e militari di truppa degli 8.739 effettivi.

    La difesa della Sicilia fu un’impresa quasi impossibile, non come più volte affermato per la sproporzione tra le truppe alleate e quelle italo-tedesche (181.000 uomini nelle prime e 260.000 nelle seconde), ma per la superiorità degli Alleati nel dominio del cielo e del mare; peraltro, vincente fu il fatto che la gittata dei cannoni delle navi Alleate poteva arrivare fino a 40 Km. di distanza e ciò permetteva di non incappare nelle acque minate. E i tiri di interdizione delle navi statunitensi, tra il 10 e il 12 luglio contro le Divisioni “Livorno” e “H. Goering”, nella piana di Gela ne furono la dimostrazione.

    In aggiunta a ciò esiste un altro aspetto degno di attenzione su cui, da tempo, cerco di azzardare delle spiegazioni. Mi riferisco alla città di Gela la quale, nonostante sia stata scelta nel luglio del 1943 come punto principale di sbarco della 7a armata americana, non fu mai bombardata né prima, né durante lo stesso sbarco, al contrario di altre città dell’Isola che in seguito a tali azioni subirono morti, feriti e distruzioni. Vero è che a Gela, precedentemente allo sbarco, esisteva già un nucleo di intellligent anglo-americana, però, tale presenza, che non era solo a Gela, sicuramente non l’avrebbe esclusa da un eventuale bombardamento. In merito al supposto caso di spionaggio dell’ammiraglio gelese Francesco Maugeri, anche questo degno di essere analizzato, ci riserviamo di scriverne in altro contesto.

    In definitiva, l’insieme dei seguenti fattori: comandanti privi di esperienza,  inadeguata preparazione degli ufficiali, equipaggiamento inadeguato, scarsa potenza di fuoco, armi anticarro inadeguate, inconsistenza delle forze corazzate e scarsa mobilità delle unità di fanteria, spiegano chiaramente i disastri a livello tattico, operativo e strategico cui andò incontro il Regio Esercito Italiano nel corso della guerra anche se, il semplice fatto di aver affrontato la guerra in simili condizioni di inferiorità, fu di per sé un atto di eccezionale coraggio. Oltre a ciò mancò pure la fortuna!!

    Pertanto, se bombardamento a Gela non ci fu, lo si deve al comando alleato il quale, molto probabilmente, agì in rapporto ad un patto realizzato in precedenza anche con politici siciliani tra cui quasi sicuramente Salvatore Aldisio (peraltro, a quanto sembra, discendente da famiglia massonica di Gela); non per niente lo stesso, dopo la presa dell’Isola, nel 1944 fu nominato Prefetto di Caltanissetta, Ministro dell’Interno nel secondo Governo Badoglio e poi Alto Commissario per la Sicilia. E non fu il solo, anche i capimafia Genco Russo, Calogero Vizzini e Lucio Tasca Bordonaro, per il loro “contributo” agli americani, furono “premiati” con la carica di primo cittadino dagli Alleati rispettivamente a Mussomeli, Villalba e, addirittura, Palermo. E non furono i soli.

    Un’altra considerazione su un fatto che nobilitò certamente gli abitanti di Gela di allora; dalla presa dell’abitato di Gela degli americani e fino alla loro smobilitazione non vi furono mai ali di folla applaudenti gli occupanti e forse non poteva essere diversamente dal momento che i gelesi si resero conto direttamente degli atti eroici e del sacrificio della vita dei soldati italiani nella difesa della Patria.

    Un’ultima considerazione si riferisce ad un fatto che coinvolse allora un buon numero di gelesi, arrestati dagli americani perché creduti fascisti in quanto trovati con indosso una camicia nera e quindi con il rischio di essere fatti prigionieri o addirittura fucilati. E se scamparono a tale pericolo fu grazie all’intercessione di due conterranei (Nicola ed Emanuele Mulè, rispettivamente zio e padre dello scrivente) che, in quanto conoscitori della lingua inglese per lunga navigazione, spiegarono agli americani l’uso della camicia nera in seguito ad un lutto familiare facendoli quindi desistere dal loro comportamento a danno dei suddetti gelesi.

 

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