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Agosto 2025


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RICERCHE SUBACQUEE NEI FONDALI DEL MARE DI GELA

TRE MUSEI DIFFUSI NELLA CITTA’ DI GELA? LA RISPOSTA E’ SI’!!

QUELLI DI ARCHEOLOGIA GRECA, ARCHEOLOGIA MILITARE

E ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

 

RESTITUIRE AL SANTUARIO

IL QUADRO BIZANTINO

DI MARIA SS. D’ALEMANNA, PATRONA DI GELA

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RICERCHE SUBACQUEE NEI FONDALI DEL MARE DI GELA

 

Redazione di SikeliaNews dell’11 Febbraio 2017:

“Il mare di Gela continua a restituire preziosi beni archeologici, storici e culturali, dopo averli custoditi per 2.700 anni. Di fronte al litorale di contrada Bulala, a est della città, i sommozzatori del reparto operativo aeronavale della Guardia di finanza di Palermo, in collaborazione con la Sovrintendenza al mare, hanno proceduto al recupero di due elmi corinzi, un'ampolla massaliota (cioè dell'antica colonia greca di Marsiglia, in Francia), un'anfora arcaica e 47 lingotti di oricalco, il leggendario "metallo di Atlantide" costituito da una preziosa lega di rame e zinco. Altri 39 lingotti erano stati recuperati nel dicembre 2014, frutto di una scoperta unica nel suo genere per l'intero Mediterraneo.”

    L’enorme consistenza di reperti archeologici presenti nei fondali del mare di Gela, a cui ha dato un notevole contributo il sub locale Franco Cassarino nel loro recupero, comporta un interessamento primario da parte delle istituzioni competenti, cosa che purtroppo non avviene, soprattutto per mancanza di finanziamenti regionali, ma anche perché non c’è interesse della politica a tutti i livelli a partire da quello locale. Ancora, purtroppo, non si riesce a comprendere l’importanza che può avere lo sfruttamento di questi “giacimenti culturali” per il turismo e soprattutto come volano per l’economia e l’occupazione giovanile della città di Gela e del suo circondario.

    Non è concepibile poi che la Regione rimanga ancora sorda alla tematica del bene culturale, di Gela in particolare; non si vuole capire che potenziando l’attività archeologica di Gela ne trarrebbero frutto la stessa città e la Sicilia intera.

    Comunque sia, con la presente si vuole dare un contributo ribadendo un’ulteriore valorizzazione non solo dei beni culturali terrestri, lo si fa dal 1981, ma anche di quelli sommersi, il tutto avvalendosi di strutture specialistiche e di professionalità. C'è bisogno di un anello di congiunzione del Comune di Gela con la Soprintendenza del Mare, quella di Caltanissetta e del Museo, per mettere in atto le attività connesse all'archeologia subacquea.

    L’azione dell’idea  dello scrivente, si prefigge anche lo scopo della ricerca e del recupero dei reperti bellici dello sbarco americano a Gela del 1943; questa è un’altra miniera di reperti di archeologia militare ancora quasi del tutto inesplorata che si riferisce a diverse tipologie d’imbarcazioni affondate, materiale bellico vario, equipaggiamenti e a diverse decine di aerei americani Dakota C-47 abbattuti per fuoco amico, che giacciono ancora sommersi e che, se recuperati, darebbero una svolta alla realizzazione del tanto agognato museo dello sbarco a Gela.

    Nell'area di Abuqir ,"ramo Canopico" del Nilo, si trovava la città di Canopo (Thonis), che fu il più importante centro commerciale egiziano sul Mediterraneo prima della creazione di Alessandria. In un periodo compreso fra il IV e il II secolo a.C., l'acqua e la sabbia avevano già inghiottito questo antico porto faraonico del quale s'era persa l'ubicazione. Ma più tardi ad Erakleion greca toccò la stessa inesorabile sorte della più antica Thonis, ed attualmente si trova anch'essa sommersa ad una profondità di una decina metri nel mare della baia di Abuqir.

    Nel 2000 con l’ausilio di moderne tecnologie, incluse le onde magnetiche, è stata mappata l’intera area sommersa, “Abbiamo una città faraonica antica di 2500 anni, congelata nel tempo” ha detto Franck Goddio, l’archeologo francese che ha guidato un team internazionale nella ricerca.

    Ci chiediamo perché non si fa la stessa cosa per i fondali di Gela? Non si può richiamare in vita il compianto Prof. Sebastiano Tusa che già aveva creato le condizioni per una mappatura del fondale di Bulala nel mare di Gela. Anzi chi di dovere perché non riprende quanto fatto prima dal suo predecessore.

TRE MUSEI DIFFUSI NELLA CITTA’ DI GELA? LA RISPOSTA E’ SI’!!

QUELLI DI ARCHEOLOGIA GRECA, ARCHEOLOGIA MILITARE

E ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

    Qualche decennio fa chi scrive ebbe la “sfacciataggine” di proporre a varie istituzioni, come la Soprintendenza e l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali (ovviamente anche per conoscenza al Comune di Gela, in modo da essere interessato alla proposta), di realizzare a Gela un Museo Diffuso dal momento che erano in corso diversi scavi in varie parti della città, scavi che il più delle volte mettevano in luce diversi siti archeologici con il ritrovamento di reperti che sistematicamente venivano trasferiti al locale Museo archeologico, senza nemmeno che lo stesso sito in modo postumo venisse segnalato da un qualsiasi cartello; ovviamente non esisteva allora questa aspettativa perché lo scavo faceva parte del lavoro di un “capo” archeologo e come tale doveva servire allo stesso per pubblicazioni, titoli, e quant’altro si sarebbe potuto ricavare e quindi non a servizio della comunità gelese. Figuriamoci!!

    Anche in tempi recenti fu ripetuta dallo scrivente la proposta del Museo Diffuso, in particolare quando fu realizzato uno scavo in via Genova a Capo Soprano dove furono trovate due siti di necropoli del V e del IV sec. a.C., ma niente da fare. E così in via Cicerone e in altre zone più o meno vicine scavate successe la stessa situazione di indolenza e, perché no, strafottenza nel recepire l’dea del Museo Diffuso, idea importante perché prevedeva un itinerario per le vie della città su diversi siti dal punto di vista di un possibile rilancio del turismo archeologico.

    Andiamo adesso in via Di Bartolo, una strada del Borgo, in una vasta zona a nord del Vallone Pasqualello dove in antico, a partire da Via Matteotti per arrivare fino al cimitero e oltre, esistevano (ed esistono ancora sotto le strade e le case) necropoli a partire dal VII fino ad arrivare al IV sec. a.C.  Proprio in via Di Bartolo Paolo Orsi, nei primi anni del 1900, scavando, scoprì qualcosa come 37 sepolture con una serie numerosa di reperti archeologici che assieme a moltissimi altri (un calcolo documentato dello scrivente ne arriva a contare fino a 7.000 reperti integri), furono trasferiti al Museo di Siracusa e mai più restituiti anche perché, nè prima né dopo, non fu mai richiesta la debita restituzione degli stessi reperti.

    Quindi, nella zona del Borgo scavò, a partire da aprile-giugno del 1900 e fino al 1905, per ben 6 anni, Paolo Orsi per poi andare fino all’attuale Cimitero Monumentale. “…senza menar vanto dell’opera mia, frutto di un dovere devotamente ed amorosamente compiuto, ho ben la coscienza d’avere rivelato agli studiosi uno dei focolari più ricchi e men noti della Sicilia antica, sul quale la letteratura archeologica era fin qui completamente negativa.” Lo stesso Orsi affermava che “…io penso, che tenuto conto delle falde di terreno adiacenti, né da me esplorate, il numero totale dei sepolcri del Borgo si possa calcolare in 2.000 circa…”.

    Comunque con questo scritto, si vuole ulteriormente rendere manifesta la proposta di ritornare a scavare nelle vie del Borgo e oltre per realizzare su ogni ritrovamento la stessa situazione prodotta ultimamente in via Di Bartolo e ciò varrebbe per le seguenti vie, sempre del Borgo; Via Bonanno, via Buscemi, via Salerno, via Sammito (già via Cubba), via Martorana, via F.lli Bandiera. Ma non solo, anche per diversi ex predii (come il predio Lauricella, a est del Cimitero monumentale), il predio della necropoli La Paglia (a sud della Villa comunale), ed ancora quelli di Rosso-Russo, Catalano e Tascone, Romano e Lo Bartolo, Jozza, Bentivegna, ecc.

    In merito alla denominazione della via Di Bartolo, non si riesce a sapere nulla di essa, però, sulla base di altre vie del Borgo data a nominativi di militari deceduti eroicamente nella Prima Guerra Mondiale, è probabile che si tratti di un militare nostrano deceduto appunto in quella Guerra.

    Per il secondo museo diffuso si coglie l’occasione per contestualizzare un “Bunker Tour” da proporre come itinerario turistico di Archeologia Militare. Ma tutto ciò, purtroppo, è sconosciuto a chi si dovrebbe interessare dell’aspetto turistico della città, anche se ultimamente una commissione consiliare si è interessata a questa tematica dell’Archeologia Militare e di cui, in mancanza di una risposta, ci si chiede come sia andata a finire!!

    L’itinerario turistico di Archeologia Militare (quello di Gela è il più consistente della Sicilia) si potrebbe snodare sicuramente nel nostro territorio dal momento che tra il 1941 e iI 1943, furono costruiti più di 200 fortinì di diverso tipo che col passare degli anni si sono ridotti a meno della metà; il loro numero fino al 1987 era di 186 unità. Un sistema difensivo costiero di Gela e d'intorni, che alla luce delle opere rimaste, è riferibile essenzialmente a quattro tipologie:

1) Postazioni pluriarma delle casematte nella zona Capo Soprano, a nord dell’ex ciminiera del Liquirificio Marletta-Cellura;

2) Postazioni circolari monoarma di capisaldi con due tipologie, riscontrabili a Feudo Nobile, Monte Zai e Apa sulla SP8 per Butera; Ponte Olivo e CasteIIuccio; c.da Grotticel!e; Stazione di Butera, Monte Falcone e Diga Comunelli; c.da Poggio Tenna, a est delI'ex Aeroporto di Ponte Olivo; c.da Priolo. Ed ancora diversi bunker isolati: sulla SS.115 per Vittoria e Licata, SP8 per Butera, centro storico di Gela (Acropoli, Carrubbazza, Mura Timoleontee, Punta Vigne, Porto rifugio)

3) Postazioni circolari cilindriche infossate: Feudo Nobile e Castelluccio;

4) Rifugi antischegge in c.da Dell’Oliva sulla strada per Mazzarino.

    Ci sarebbe un terzo museo diffuso da realizzare, quello di Archeologia Industriale, relativo ad alcuni impianti petroliferi da tempo dismessi, ma l’ENI, a cui si è rivolto lo scrivente per la proposta, al di là di una cortese risposta sembra …aver dimenticato!! E la Politica locale?

RESTITUIRE AL SANTUARIO

IL QUADRO BIZANTINO

DI MARIA SS. D’ALEMANNA, PATRONA DI GELA

    Per quanto lo scrivente si sia interessato della storia del Santuario di Gela, molte persone si sono poste spesso delle domande e chiesto dei chiarimenti sul culto religioso in questo edificio, ritenuto particolarmente sacro dalla popolazione gelese in quanto legato alla sua Patrona Maria Ss. d’Alemanna. E, pertanto, sulla base di diverse documentazioni, si è arrivati alla conclusione (che è stata anche di altri studiosi, antichi e moderni) che a Gela, a partire dal 1200 (ma anche precedentemente in epoca greca), sia esistito e tuttora esiste un santuario, quello di Maria Ss. d’Alemanna al Villaggio Aldisio, uno e uno solo fino ad oggi a partire da quella lontana epoca trecentesca. Addirittura rispetto ad altri santuari del tardo medioevo il nostro, ha anche la prerogativa di mantenere ancora intatto il punto (trasformato in una botola) in cui nel 1476 fu trovata l’icona della Madonna da un contadino che arava la terra, fortunatamente sepolta lì per evitare di essere distrutta dagli iconoclasti, movimento contro l'uso e il culto delle sacre immagini che fu provocato  dall'imperatore bizantino Leone III Isaurico.

    E anche se nel dopoguerra il quadro della Patrona è stato trasferito definitivamente in chiesa Madre, trasferimento a dire dello scrivente in modo illecito e peraltro si oserebbe dire …blasfemo, i fedeli sanno che “la Madonna è rimasta” nel posto dove fu ritrovata la sua immagine dipinta. Addirittura dopo tutta una serie di recenti vicissitudini, spesso create volutamente chissà per quali reconditi motivi a danno del Santuario, durate più di mezzo secolo, lo stesso edificio dopo tante lotte del comitato, appositamente creato, è stato riaperto al culto nel 1985; tra l’altro una cosa importante è che da allora si sta riprendendo l’uso, per un’antichissima tradizione, di prelevare dalla citata botola un po’ di terriccio (come se fosse stato a contato con l’icona della Madonna) e metterlo in un sacchetto per portarselo a casa per una spiritualità sacra di protezione in ogni necessità.

    L’illecita detenzione e la non restituzione del quadro della Madonna d’Alemanna continuano purtroppo fino ad oggi con il silenzio indolente di chi dovrebbe decidere per la giusta riconsegna, non fosse altro per avere il dovuto rispetto religioso di un’antica tradizione che vedeva il quadro della Vergine in pianta stabile al Santuario; e da lì, come ci riferisce lo storico terranovese Salvatore Damaggio Navarra nella sua pubblicazione “Maria d’Alemanna in Terranova” del 1915, trasportata dai contadini nella “macchinetta” (ovvero la raggiera, un antico supporto di legno dorato), era trasferita in città in corteo solenne tre volte l’anno, presenti il Governatore e i Magistrati in eleganti carrozze, seguita da tutto il popolo e in particolare da molte donne a piedi nudi che avevano espresso un voto alla Madonna; in particolare, in gennaio alla chiesa del Carmine, in occasione dell’annuale ricorrenza dello scampato pericolo dal terremoto dell’11 gennaio del 1693; allora, come riportano le cronache storiche, le scosse telluriche furono così violente che distrussero molte città dell’Isola specialmente nella sua parte orientale. Terranova e i suoi abitanti non ebbero nessun danno e ciò, tradizione popolare vuole, grazie alla protezione della Vergine a cui la popolazione terranovese in uno slancio corale di fede si rivolse in preghiera. Ancora il popolo ricorda i famosi versi coniati in quella tremenda occasione:

“ALL’UNNICI ‘I JNNARU A VINTUN’URA

SI VITTI E NUN SI VITTI TERRANOVA;

SE UNN’ERA PPI’ MARIA, NOSTRA SIGNURA,

PETRI SU’ PETRI FURRA TERRANOVA”

 

    Ma non fu solo il Pitrè nel 1888 a scrivere del culto della Madonna d’Alemanna, anche prima e dopo dello stesso esistono dei riferimenti di antichi scrittori come Rocco Pirri nel 1644, di Antonio Mongitore nel 1721, di Vito Amico nel 1760, di Gioacchino Di Marzo nel 1855, di Salvatore Damaggio Navarra nel 1915, del reverendo Luigi Aliotta nel 1954 e qualche anno fa anche dallo scrivente.

    Le altre due volte l’icona bizantina della Madonna era trasferita in chiesa Madre rispettivamente nel mese di maggio (la tradizione mariana legata a questo mese, risale al XIII secolo ad opera del re spagnolo Alfonso X il Saggio, re di Castiglia e di León), con una solenne esposizione, e nell’ultima domenica di agosto per dar corso ai festeggiamenti patronali del successivo otto di settembre che sono stati sempre grandiosi e religiosamente sentiti, anche se da diversi anni sono state propinate alla popolazione gelese diverse situazioni farlocche e inventate, come ad esempio il ”Palio dell’Alemanna”, che sotto certi aspetti assieme ad armigeri, sbandieratori, arcieri e quant’altro non appartenenti alla nostra tradizione della festa si  è dimostrato una  carnevalata.

    In realtà fino alla fine degli anni Cinquanta il “Palio della Madonna”, quello vero, consisteva in una gara di due cavalli con fantini, e qualche volta anche senza, tutti addobbati con divisa a colori sgargianti che partivano allo sparo di un grosso petardo (un “corpu di mascuni”) da Molino a Vento a est del centro murato. Il percorso si snodava lungo tutta l’arteria principale del Corso fino al Camposanto, da lì, dopo l’esplosione di un altro petardo, si invertiva la corsa per rifare lo stesso percorso fino al traguardo che era posto nei pressi della “chiazziteddra” (piazzetta), all’incrocio tra il Corso e via Porta Marina (oggi via Marconi). Durante la gara i marciapiedi del Corso, dalla “chiazziteddra” ai “Quattro Canti” (oggi piazza Martiri della Libertà) erano transennati con travi legno. Di queste corse oggi, che lo scrivente sappia, non esiste nessuna fotografia, ma per chi non ha mai assistito può farsene un’idea osservando una foto di un acquerello di Salvatore Solito qui riportata.

     I cavalli utilizzati per le corse provenivano in genere dal Marocco ovvero dalla Barberia, un’antica denominazione di diverse regioni del Nord-Africa, e per tale provenienza erano chiamati “bàrberi”. Ma oltre a questo tipo di cavalli ne esisteva un altro, utilizzato anche per le gare durante i giorni della festa; erano i cosiddetti “Giannetti” o “Ginnetti”, cavalli da corsa di razza spagnola piccoli e snelli.

    Ritornando al quadro della Madonna, dopo il suo trasferimento temporaneo nelle suddette tre date, l’icona rientrava nel Santuario e così da ben quasi 500 anni, fino al 1945. In particolare, nel capitolo LVI dell’opera di Giuseppe Pitrè del 1888 sulle tradizioni popolari in Sicilia, dal titolo “La festa di S. Maria d’Alemanna in Terranova Sicula” a cura di Aurelio Rigoli, si legge: “…s’innalza solitaria, tra vasti e ubertosi campi d’intorno, un’elegante chiesuola, sacra alla B.V. Maria d’Alemanna, detta comunemente Manna. Si venera quivi, da remotissimo tempo, una pregevole immagine dell’Augusta Madre di Dio del medesimo titolo, alla quale, siccome Patrona della Città, si celebra ogni anno la festa il dì 8 settembre con rito solenne…”. Ed ancora “…Questa Madonna, già intesa “saccareddra”, cioè acquaiola, perchè apportatrice di piogge, viene condotta in città tre volte l’anno: in Gennaio alla chiesa del Carmine per la festa del Crocifisso, e nella parrocchia in Maggio e in Settembre, festa della Natività di Maria…”.

    Nel mese di maggio anticamente la festa durava l’intero mese, ed i devoti a piedi scalzi si recavano al santuario recitando il rosario e, ad ogni gloriapatri, la giaculatoria:

Beddra ‘n terra, beddra ‘n celu,

Beddra siti ‘n paradisu;

Beddru assai è lu vostri visu.

Pri ssu figghiu vostru ‘n brazza,

Conciditimi ‘na grazzia!

Cunciditimilla a mia,

Chi vi dicu ‘a vimmaria”.

    Il prossimo anno ricorrerà il 550° anniversario del ritrovamento dell’icona della Madonna e a tal proposito il Santuario ricorderà tale avvenimento con una serie di manifestazioni religiose oltre alla previsione di produrre una cartolina dedicata e relativo annullo di Poste Italiane; e non solo, tra l’altro sarà riproposta nel terreno attiguo al Santuario da attori professionisti la scena relativa al ritrovamento del quadro della Madonna.

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