QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE

Giugno 2023


ARGOMENTI

    Il Distretto Gelese di oggi è monotematico, infatti tratta dello Sbarco Alleato in Sicilia e della Battaglia di Gela.

 

10 Luglio 1943

Lo Sbarco Americano e la Battaglia di Gela

 





    Alle prime luci dell’alba del 10 luglio 1943 gli Alleati (principalmente americani, inglesi e canadesi) con un’imponente azione offensiva, denominata “Operazione Husky”, iniziarono l’attacco della “Fortezza Europa” con la Campagna di Sicilia che, oltre ad essere l’inizio della liberazione d’Italia (definita come “ventre molle dell’Asse”), fu anche l’inizio del crollo del regime fascista prima e di quello nazista dopo.

    Prima dello sbarco Alleato del 10 luglio 1943, iniziato nei golfi di Gela (con i primi americani sbarcati alle ore 3 in contrada “Senia Ferriata”, a sud del Lago Biviere) e Noto, il comando militare del Regio Esercito Italiano alle ore 1,55 e alle 2,50 fece saltare in aria rispettivamente un deposito di munizioni vicino l’ex Ospizio Marino e la piazzetta centrale del pontile sbarcatoio di Gela, pensando a torto che quest’ultima struttura resa inservibile avrebbe potuto ritardare lo sbarco delle truppe Alleate le quali, si comprese subito dopo, non ebbero nessun impedimento da tale inutile demolizione. La brutta esperienza della disfatta di Dunkerque con conseguente caduta della Francia (subita tra il 26 maggio ed il 4 giugno del 1940 dai francesi e britannici tra loro alleati) convinse infatti la Royal Navy della necessità di progettare delle navi di grandi dimensioni capaci sia di navigare in mare aperto, sia nello stesso tempo di effettuare operazioni di sbarco direttamente sulla spiaggia; così, tra l’altro, a partire dal 1941 furono ideate le LST (Landing Ship Tank) e le LCT (Landing Craft Tank), con pescaggio ridotto e la prua quadrata con portelloni a cardini di oltre quattro metri, che nel 1943 furono utilizzate per portare uomini e mezzi direttamente sulle spiagge della Sicilia e della Penisola e su quelle della Normandia nel giugno del 1944, senza minimamente servirsi di pontili e di porti contrariamente a quanto allora si sarebbe potuto pensare.

 

 

I due contrattacchi della Battaglia di Gela contro gli Americani

    Come già detto sopra, uno dei settori prescelto per lo sbarco Alleato sulla Sicilia sud-occidentale fu quello del Golfo di Gela, con un’estensione di circa 40 Km., da “Punta Due Rocche” del Licatese a “Punta Braccetto” del Ragusano. Durante lo sbarco tale settore fu subito considerato strategicamente importante per la difesa italiana in quanto era separato fisicamente dalla Piana di Catania dal diaframma collinare del Calatino che era facilmente superabile e che avrebbe dato la possibilità alle Forze americane di arrivare sulla Piana di Catania così da congiungersi a quelle inglesi e canadesi. Nonostante l’importanza che assunse il settore di Gela nel contrastare militarmente un eventuale sbarco nemico, cosa già a conoscenza delle alte sfere militari italiane, nulla o quasi fu fatto per migliorarne la difesa, stessa cosa accadde per gli altri settori. Infatti, le fasi primarie dello sbarco anglo-americano in Sicilia, se si toglie la zona di Gela, furono nella quasi totalità dei casi scarsamente contrastate dalle truppe italiane e tedesche che si trovarono impreparate e con numero di mezzi insufficienti.

    Gli americani della 1a Divisione di Fanteria, la colonna Dime del Gen. Terry Allen composta da sette battaglioni con reparti d'appoggio e da due battaglioni di Rangers, dopo la neutralizzazione delle batterie costiere sbarcarono tra “Punta Due Rocche” e “Punta Zafaglione”, con l’obiettivo primario di occupare Gela e l’aeroporto di “Ponte Olivo”, quest’ultimo strategicamente importante perché da lì tra l’altro partivano gli aerei per bombardare l’isola di Malta di stanza degli inglesi.

    Avuta notizia dello sbarco nella zona di Gela, il comando delle truppe italiane con sede a Enna nella stessa giornata dispose un contrattacco avvalendosi delle unità del gruppo mobile “E” (con carri armati Renault R35 al comando del Cap. Giuseppe Granieri), della 155a Comp. Bersaglieri (al comando del Ten. Franco Girasoli), di un battaglione della Divisione Fanteria “Livorno” e della divisione panzer “H. Goering. L’esito non ebbe i risultati sperati, poiché l’azione dei tre contingenti oltre a non essere stata simultanea fu penalizzata dalle cattive comunicazioni radio, così il contrattacco italo-tedesco fu respinto; durante tale contrattacco, però, nonostante il diluvio di fuoco che arrivava dal mare, cinque carri armati Renault R35, della 1a Compagnia del CI Battaglione, affiancati dalla 155a Compagnia Bersaglieri, alle ore 8,10 riuscirono ad entrare nell’abitato di Gela ingaggiando un duro combattimento con i rangers americani del Ten. Col. William Darby. Dei cinque carri Renault R35 solo due entrarono in città; uno fu colpito e completamente distrutto dai cannoni anticarro americani in contrada Carrubbazza sulla via Generale Cascino; il secondo carro armato, attraversando il quartiere Porta Caltagirone (secondo alcune testimonianze transitò sul Corso, proveniente da via Porta Vittoria), riuscì transitando sulla via Giacomo Navarra Bresmes ad arrivare in piazza Umberto I nel cuore del centro storico; fu quello condotto dal Ten. Angiolino Navari del 141° Rgt. Carristi il quale, dopo che il suo carro armato fu colpito da un bazooka ai cingoli, per evitare di morire nell’incendio che avvolse lo stesso carro uscì dalla torretta ma fu bersagliato e ucciso dai tiri incrociati degli americani; una lapide, posta sul palazzo prospiciente via Matrice, ne ricorda l’azione eroica mentre per tale gesto al Navari fu concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria.

    L’indomani dello sbarco gli americani dopo aver conquistata Gela subirono, però, una seconda controffensiva delle truppe dell’Asse. La divisione italiana di Fanteria “Livorno”, al comando del Gen. Domenico Chirieleison, la divisione tedesca di panzer “Hermann Goring, al comando del Generalmajor Paul Conrath, e quel che rimase dei carri armati del Gruppo Mobile “E” e della 155a Compagnia Bersaglieri, diedero del filo da torcere agli invasori al punto tale quasi da ricacciarli in mare (“…seppellire l’equipaggiamento sulle spiagge e fare i preparativi per reimbarcarsi”. Firmato Patton), ma non riuscirono in tale intento sia perché non ebbero il promesso rimpiazzo dal Comando italiano con nuove truppe e munizioni, sia per l’arrivo di mezzi corazzati americani di rinforzo da Licata e da Scoglitti.

    L'appoggio aereo tattico, il fuoco dei mortai e, in particolare, l’azione della marina e dell’aviazione anglo-americane salvarono le sorti di quella prima fase della battaglia di Sicilia. che infuriò sulla Piana di Gela e sulle colline che la circondano, e dove la Regia Marina Italiana fu totalmente assente e completamente inattiva restando ancorata nei porti di La Spezia, Taranto e a La Maddalena nonostante che fosse una squadra navale moderna ed efficiente che peraltro a partire dal 1940 disponeva di 6 corazzate, 31 incrociatori, 43 cacciatorpediniere, circa 60 torpediniere e oltre 100 sommergibili; anche la Regia Aeronautica Italiana, al di là della presenza di aerei bombardieri trimotori Cant Z, fu quasi assente e comunque con un armamento obsoleto, senza o comunque con pochi aerosiluranti e già logora dei mezzi e del materiale a causa delle precedenti guerre d’Etiopia e di Spagna. Nell’aeroporto di Ponte Olivo della Regia Aeronautica Militare Italiana, comandante il Ten. Col. Aldo Remondino, aveva sede il 51° Stormo di aerei da caccia Macchi c.202 comandato dal Maggiore Duilio Fanali; diversi furono i piloti che erano di stanza nell’aeroporto gelese e che si distinsero in importanti azioni come Il Maresciallo Pilota Ennio Tarantola, denominato “Banana”, il Cap. Pilota Furio Niclot Doglio, il Cap. Carlo Miani, il Maresciallo Pasquale Bartolucci ed altri.

    La piazzaforte di Augusta, la meglio armata di tutta la Sicilia, che sulla carta doveva rappresentare un baluardo insormontabile per l’invasore, nonostante la presenza di sei batterie costiere di grosso e medio calibro, con pezzi da 381, 254 e 152 mm, diciassette batterie contraeree e due pontoni armati, si arrese miseramente senza sparare un colpo e peraltro fu abbandonata precipitosamente anche dalla milizia marittima di artiglieria, la MILMART.

    Gli scontri della Battaglia di Gela terminarono nella prima mattinata del 12 luglio con la ritirata degli italo-tedeschi e con la cattura da parte degli americani di alcune migliaia di militari. Gela così fu la prima città d’Europa ad essere liberata. Da qui e da altre zone dell’Isola prese inizio la grande offensiva che doveva portare gli Alleati alla conquista integrale della Sicilia, base per le decisive battaglie che seguirono con le conseguenze a tutti note.

    La conquista della Sicilia da parte degli Alleati fu completata in 38 giorni, dal 10 luglio al 17 agosto del 1943, con l’occupazione di Messina e la ritirata delle truppe italo-tedesche in Calabria; ritirata che paradossalmente fu possibile grazie alla competizione per la conquista della Sicilia tra Patton e Montgomery e che portò al risultato di far evacuare quasi indisturbate le forze dell’Asse dalla Sicilia con mezzi e uomini quasi al completo. E ciò, in particolare dopo l’armistizio dell’8 settembre, rappresentò una grave iattura in quanto l’esercito tedesco, successivamente diventato nemico, si attestò vicino Cassino con la linea Gustav dando filo da torcere agli Alleati e rallentando la loro avanzata in Italia.

CONSIDERAZIONI

Niente ali di folla ad applaudire

    Una considerazione relativa ad un fatto che nobilitò certamente gli abitanti di Gela di allora è quella che dalla presa dell’abitato degli americani e fino alla loro smobilitazione, non vi furono mai ali di folla applaudenti gli occupanti contrariamente a quanto avvenne in quasi tutta l’Isola. E forse non poteva essere diversamente dal momento che la stessa popolazione gelese, oltre a vedere molti compaesani morire, si rese conto anche degli atti eroici e del sacrificio della vita dei soldati italiani nella difesa della Patria.

Campi minati e cartelli viari

    Si ha notizia che durante lo Sbarco Alleato sulle spiagge prospicienti il centro storico di Gela, in particolare ai lati del pontile sbarcatoio, l’Esercito Italiano fece disporre delle mine con relativi cartelli di avviso; la situazione paradossale fu quella che in concomitanza dello stesso Sbarco tali cartelli non furono tolti o perché nella concitazione derivata dall’imminente invasione fu dimenticato oppure perché qualcuno che aveva il compito di toglierli li lasciò volutamente.

    Un’altra situazione anomala che si racconta, accaduta durante la notte prima dello Sbarco, è quella che nelle vie principali del centro storico di Gela comparvero dei cartelli direzionali con scritte in inglese; che l’abbiano impiantati gli stessi americani o meno non si è mai saputo con certezza.

 

Tra stragi e stupri

    Molti autori hanno scritto sullo sbarco degli Alleati nell’Isola e sulle varie fasi della Campagna di Sicilia, conclusasi con l’occupazione di Messina, però, pochi di essi hanno trattato gli aspetti negativi che hanno contraddistinto le Forze occupanti, aspetti che per diversi decenni non sono stati approfonditi a dovere. Ci riferiamo non solo alle ruberie che  molti americani perpetrarono a danno dei proprietari delle case temporaneamente requisite, al coinvolgimento della mafia (recenti documentazioni ne dimostrano l’infondatezza se non dopo lo stesso sbarco), della massoneria, del separatismo e di personaggi delatori ma anche a diverse stragi commesse dagli americani nel territorio tra Gela, Acate e Comiso a danno di inermi prigionieri, civili e carabinieri (Michele Ambrosiano, Antonio Di Vetta e Donato Vece in contrada Passo di Piazza) subito dopo lo sbarco; secondo una recente stima, quelle stragi contarono circa 300 persone tra militari e civili. E a proposito di carabinieri si riporta qui un fatto poco e niente conosciuto, quello accaduto in Piazza Umberto I a Gela, piazza che fu teatro di una sanguinosa lotta in cui si distinsero egregiamente i Reali Carabinieri, ai quali, nel frattempo, si erano uniti alcuni giovani gelesi contro gruppi di rangers e paracadutisti. Lo scontro durò due ore circa. I carabinieri si difesero strenuamente, ma furono sopraffatti quando, esaurite le munizioni, vennero circondati da altri americani, accorsi dalla parte della vicina Chiesa del Rosario.

    Di quei giovani gelesi di allora, lo scrivente ebbe occasione di conoscerne uno, il compianto Francesco Zafarana il quale raccontò l’azione svolta in quella giornata assieme ai suoi amici a difesa dei carabinieri circondati già dai militari americani; “…dopo averci procurato delle bombe a mano, prelevate dai tascapane di alcuni militari italiani esanimi vicino la chiesa Madre, salimmo sulla torre campanaria e da lì lanciammo le bombe sugli americani, non so con quale esito perché immediatamente individuati cercammo di scendere per dileguarci ma senza riuscirci. Infatti, fummo presi dai soldati americani, i quali notando la nostra giovane età ci risparmiarono e ci portarono nella stessa mattinata dentro l’arena cinematografica “Littorio”, utilizzata come campo di concentramento, sotto il Municipio nel quartiere Orto Fontanelle”. Da lì, scavando il terreno sotto la recinzione di tavole, riuscii furtivamente ad evadere…”.

    Ed ancora, si racconta che molte donne a Gela, durante l’occupazione americana, furono coinvolte in numerosi stupri dagli occupanti, tant’è che la maggior parte di esse, se non tutte, per evitare di mettere al mondo dei figli che sarebbero cresciuti senza padre, procedette all’uso sistematico dell’aborto clandestino; quindi molti casi simili a quello riportato nel romanzo di Moravia “La ciociara”, da cui Vittorio De Sica negli anni Sessanta trasse un film con Sophia Loren ed Eleonora Brown, stuprate nella finzione cinematografica da soldati Alleati.

   

Ritirata dei soldati italiani per codardia o per esaurimento di munizioni?

    Spesso sui diversi libri di storia si legge che durante lo sbarco americano in Sicilia i soldati italiani si arresero vuoi per codardia vuoi per l’esiguità o l’esaurimento delle munizioni; falso per quanto riguarda la codardia, vero per quanto riguarda le munizioni. Non risponde a verità che i soldati italiani, in tale occasione, pensarono soltanto a fuggire e che soltanto quelli tedeschi seppero tener testa agli invasori, cose queste non rispondenti a verità.

    Esistono precise testimonianze che attestano che le quattro divisioni di fanteria italiane “Livorno”, “Assietta”, “Aosta” e “Napoli” della 6a Armata furono sempre presenti sul campo di battaglia ed operarono in modo da rendere possibili notevoli movimenti tattici. Infatti, ad esempio durante lo sbarco, numerosi e pregnanti furono gli atti di eroismo dei militari italiani nella battaglia di Gela, in particolare quelli del 33° e 34° Rgt. Fanteria della Divisione “Livorno”, i quali, anche se per breve tempo, riuscirono a rallentare l’avanzata dell’imponente 7a armata americana; di essi si ricordano il filattierese Caporal maggiore Cesare Pellegrini, Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla memoria, che trovò gloriosa morte nel fortino di Porta Marina, il fortemarmino S. Ten. Carrista Angiolino Navari, Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria, che col suo carro armato, nei pressi di Piazza Umberto I, riuscì a impegnare una compagnia di soldati americani, il Mag. Enrico Artigiani (Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria), il Col. Mario Mona (Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria) e tante altre migliaia tra ufficiali e soldati che con il sacrificio della loro vita difesero il patrio suolo italiano e non il fascismo come falsamente e ignorantemente “alcuni” vorrebbero far credere.

Soldati italiani in Sicilia utilizzati come “scudi umani”

    In merito alla resa di interi reparti italiani che combatterono in Sicilia, essa probabilmente fu dovuta anche ad un altro motivo. Lo scrivente, in merito ad una ricerca nell’Archivio Storico Militare di Roma in via Etruria, è nelle condizioni di dimostrare che sicuramente un caso di resa di un reparto italiano, avvenuto nella prima giornata dello sbarco Alleato a Gela, fu dovuto al fatto che gli americani in un’azione di guerra avanzarono dietro una moltitudine di prigionieri italiani, questi ultimi dunque utilizzati come “scudi umani”, tant’è che i nostri soldati allora non poterono far altro che arrendersi anziché sparare sui loro commilitoni.

    Piace qui riportare un passo della “Relazione cronologica degli avvenimenti” riscontrabile nel suddetto archivio storico militare romano: “…Ore 9,20: il Col. Giuseppe Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Una comunicazione di tre righe su una pagina ingiallita dal tempo, a firma del Gen. Orazio Mariscalco comandante della XVIII Brigata Costiera, rimasta incredibilmente sconosciuta per oltre settant’anni all’interno di un faldone, che mette in luce per la prima volta in assoluto un caso così clamoroso. Certamente questo espediente, senza dubbio vincente, nulla vieta a far pensare che allora sia stato utilizzato sicuramente dai comandi americani non solo a Gela ma anche in altre occasioni come recentemente accertato da altre testimonianze in possesso dello scrivente.

    Un altro episodio accaduto ai soldati italiani, presi prigionieri dagli americani dopo la battaglia di Monte Castelluccio dell’11-12 luglio 1943, si riferisce al racconto del Ten. Col. Ugo Leonardi il quale, assieme a diversi ufficiali medici con il bracciale della Croce Rossa Internazionale, fu schiaffeggiato ed umiliato. Solo alcuni di questi episodi sono stati, con molto ritardo e a oltre settant’anni dagli eventi, ricordati e menzionati se pur con scarsissima rilevanza.

    L’aver utilizzato soldati prigionieri italiani come scudi umani, quindi, rappresenta un’altra pagina nera dello sbarco Alleato del 1943 in Sicilia, pagina nera che si aggiunge alle precedenti, scritta ancora una volta dai comandi americani in sfregio all’etica militare e soprattutto ai dettami della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra.

    Dopo la pubblicazione di quanto scoperto dallo scrivente riguardo gli “scudi umani”, prima sul quotidiano “la Repubblica” edizione di Palermo del 23 luglio 2011 e poi sulla pagina regionale de “La Sicilia” del 12 luglio 2013, è interessante riportare qui il testo di una e-mail da Palermo del Sig. Pietro Mirabile, inviata in data 30 dicembre 2014 allo scrivente, che così recita:

    “Buonasera, Signor Mulè, le dico subito che non ci conosciamo, il motivo di questa mia è nell’oggetto. Mi spiego meglio!?! Due giorni fa il 28 di Dicembre mio padre avrebbe compiuto 102 anni (è morto nel 2007) così oltre a qualche preghiera per la sua anima ho cercato nella rete notizie sullo sbarco in Sicilia. Tutte le volte che mio padre ne parlava gli spuntavano le lacrime per la rabbia ed il disprezzo che provava per gli invasori.  Mio padre ha fatto la guerra da richiamato ed era sergente maggiore del 18° Comando Brigata Artiglieria Costiera, il 10 Luglio del ‘43 si trovava tra Palma di Montechiaro e Licata, raccontava che nella primavera di quell’anno c’erano stati avvicendamenti nella linea di comando degli Ufficiali superiori, e raccontava sempre che tutta la batteria aveva ricevuto l’ordine di non togliere le cappotte ai cannoni quella notte. Preso prigioniero lo hanno usato come scudo umano fino quasi a Leonforte dove c’erano le retrovie tedesche. Leggendo quello che Voi avete pubblicato ho costatato la verità del suo racconto e non aveva esagerato, infatti a Gela le cose sono andate peggio. Mi auguro di non averLa disturbata con questa mia testimonianza (indiretta di 71 anni fa), Le auguro un sereno e proficuo 2015…”.  Da Palermo Pietro Mirabile”.

    Non ci sono elementi tali da non credere appieno a quanto scritto dal Sig. Mirabile sul racconto del padre, quest’ultimo testimone di un sistematico atteggiamento delle truppe americane nell’utilizzare i prigionieri italiani come scudi umani per avanzare più facilmente all’interno dell’Isola. E ciò accadde per circa 100 Km., dall’Agrigentino fino alla cittadina dell’Ennese, passando anche per diversi paesi del Nisseno, Caltanissetta compresa.   

    Quanti giorni impiegarono gli americani per arrivare a Palermo? Dall’11 al 22 luglio sono 11 gg. Quanti giorni impiegarono gli inglesi per arrivare a Catania? Dall’11 luglio al 6 agosto sono 26 gg.; lo scrivente, pertanto, si convince sempre di più che ci sono tutti gli elementi per poter riflettere sull’uso sistematico di allora nell’aver utilizzato i prigionieri italiani come “scudi umani” nell’avanzata americana in Sicilia.

 

Perdite italo-tedesche nell’Operazione Husky

    Le perdite italo-tedesche nelle prime fasi dello sbarco furono enormi; da Gela fino a Regalbuto, tra morti e dispersi negli 11.440 componenti della Divisione “Livorno” vi furono 214 ufficiali e 7.000 tra sottufficiali e militari di truppa, mentre della divisione corazzata “H. Goering” caddero 30 ufficiali e 600 sottufficiali e militari di truppa degli 8.739 effettivi. Così il totale dei soldati dell’Asse tra morti e dispersi in Sicilia fu di circa 50.000 unità (in stragrande maggioranza italiani), mentre quello dei soldati Alleati deceduti nell’operazione Husky fu intorno alle 5.000 unità, con 9.000 feriti e 3.300 prigionieri.

    Oggi, dopo ottant’anni, una cosa rimane certa: l’Italia si trovò coinvolta, per colpa del fascismo e della monarchia, in una guerra in cui gli italiani in tempi diversi si ritrovarono grottescamente a combattere (e morire) contro gli Anglo-Americani prima, contro gli ex alleati Tedeschi dopo e persino tra loro durante il nefasto periodo della Repubblica Sociale.

    Da alcuni decenni, diversi sono gli studiosi che stanno facendo luce su determinati aspetti dell’invasione Alleata in Sicilia e tra questi i Proff. Rosario Mangiameli e Ezio Costanzo che convenientemente con studi e pubblicazioni danno un notevole contributo alla divulgazione e alla conoscenza di tale importante avvenimento della storia d’Italia e della Sicilia in particolare.

    La difesa della Sicilia fu un’impresa quasi impossibile, non come più volte affermato per la sproporzione tra le truppe alleate e quelle italo-tedesche, ma per la superiorità degli Alleati nel dominio del cielo e del mare; peraltro, vincente fu il fatto che le navi Alleate possedevano dei cannoni a lunga gittata che potevano arrivare a diverse decine di Km. di distanza e ciò gli permise in modo indisturbato di produrre una serie infinita di tiri di interdizione che tra il 10 e il 12 luglio nella Piana di Gela decimarono le Divisioni “Livorno” e “H. Goering”, in particolare nella giornata del secondo contrattacco; tiri iniziati a sparare, dalle ore 8,30 e ininterrottamente terminati alle ore 13, dagli incrociatori Savannah e Boise e da ben cinque cacciatorpediniere (Glennon, Jefferson, Laub, Cowie e Butler).

 

Bombardamenti in molte città dell’Isola, tranne Gela

    In aggiunta a quanto scritto prima, esiste un altro aspetto degno di attenzione su cui da tempo lo scrivente cerca di azzardare delle spiegazioni. Mi riferisco alla città di Gela la quale, nonostante sia stata scelta nel luglio del 1943 come punto principale di sbarco della 7a armata americana, non fu mai bombardata né prima, né durante lo stesso sbarco (al di là di qualche bomba d’aereo sganciata incidentalmente), al contrario di altre città dell’Isola che in seguito a tali azioni subirono morti, feriti e distruzioni. Vero è che a Gela, precedentemente allo sbarco, esisteva già un nucleo di intellligent anglo-americana, però, tale presenza, che non era solo a Gela, sicuramente non l’avrebbe esclusa da un eventuale bombardamento. In merito al supposto caso di spionaggio dell’ammiraglio gelese Francesco Maugeri (lo stesso che ebbe il compito di trasferire Mussolini, dopo il suo arresto, all’Isola de La Maddalena in Sardegna), anche questo degno di essere analizzato, ci riserviamo di scriverne in altro contesto.

    Pertanto, se bombardamento a Gela non ci fu, a parere dello scrivente lo si deve al comando alleato il quale, molto probabilmente, agì in rapporto ad un patto realizzato in precedenza anche con politici siciliani tra cui quasi sicuramente Salvatore Aldisio, peraltro, a quanto sembra, discendente da famiglia massonica di Gela; non per niente lo stesso Aldisio, dopo la presa dell’Isola, nel 1944 ebbe la carica di Prefetto di Caltanissetta, di Ministro dell’Interno nel secondo Governo Badoglio e poi di Alto Commissario per la Sicilia. E non fu il solo, anche molti mafiosi per il loro “contributo” dato agli americani, furono “premiati” con posti di responsabilità, addirittura alcuni di essi ebbero la carica di primo cittadino.

 

L’uso della camicia nera per lutto

    Un’ultima considerazione si riferisce ad un fatto che coinvolse allora un buon numero di gelesi, arrestati dagli americani perché creduti fascisti in quanto trovati con indosso una camicia nera e quindi con il rischio di essere fatti prigionieri o addirittura fucilati. E se scamparono a tale pericolo fu grazie all’intercessione di due conterranei (Nicola ed Emanuele Mulè) che, in quanto conoscitori della lingua inglese per lunga navigazione, spiegarono agli americani l’uso della camicia nera in seguito ad un lutto familiare e quindi facendoli desistere dal loro comportamento a danno dei suddetti gelesi.

 

Dal libro del Col. Dante Ugo Leonardi

    Chiudiamo questo articolo con il ripotare un brano tratto dal libro “Luglio 1943 in Sicilia” del Col.  Dante Ugo Leonardi del 1947, comandante del 34° Reggimento Fanteria della Divisione “Livorno”, dal titolo “Il terzo contrattacco notturno degli Americani. L’accerchiamento e la fine” che così recita:

    “…L’inevitabile si compiva. Dopo circa due ore, su Monte Castelluccio si scatenò un uragano di fuoco da parte delle artiglierie navali. Fu di breve durata, ma compensato dal numero considerevole delle bocche da fuoco che agivano contemporaneamente.”

    “Lo schianto delle granate faceva tremare la terra. Il ritmo degli scoppi rassomigliava a quello di una battaglia di tamburi. Monte Castelluccio bruciava. Schegge e sassi fendevano rabbiosamente l’aria. Le spesse mura del castello crollavano sotto la violenza dei grossi calibri.”

    “Cessato il fuoco dell’artiglieria, le fanterie americane attaccarono. Dapprima l’azione fu soltanto frontale. Poi si estese gradualmente ai fianchi, e successivamente anche alle spalle. Così, all’alba del memorabile 12 Luglio 1943 ci trovò già accerchiati da forze e mezzi schiaccianti.”

    “Tenemmo testa per diverse ore, dando la possibilità agli altri reparti della Divisione “Livorno” di organizzarsi a difesa sulle nuove posizioni retrostanti. Tra bersaglieri della 155a Compagnia e fanti del 3° Battaglione, fu una nobile gara di eroismo. Man mano che il cerchio si stringeva, la lotta diveniva sempre più accanita. Attorno a noi, era una pioggia di fuoco proveniente da tutte le parti!”

    “Finché vi furono munizioni, lottammo. Non avevano più alcuna speranza, tuttavia nessuno tentennò. Il tenente Girasoli Franco, salito più volte in piedi su un muricciolo, sprezzante del pericolo, incitava i suoi valorosi bersaglieri a far fuoco. Ferito, precipitava, ma poco dopo tornava a combattere. Il tenente Sampietro Aldo, che il giorno precedente si era comportato da valoroso, ora accorreva da un punto all’altro delle postazioni delle sue armi incitando disperatamente gli uomini a far fuoco. Finite le bombe, rendeva inservibili i mortai e continuava a combattere col moschetto. Il tenente La Torre Giuseppe, esaurite le munizioni dei cannoni, rendeva anch’egli inservibili i pezzi e continuava con le armi individuali”.

    “I comandanti di reparto, ad uno ad uno, comunicavano intanto che “le munizioni erano finite e che si stavano utilizzando quelle dei morti e dei feriti”. Il Caporal maggiore Spallanzani Libero di Rubiera (Reggio Emilia), terminate le cartucce e le bombe a mano, impugnava una pistola americana catturata durante il combattimento del giorno precedente, e si slanciava verso il nemico nel temerario intento di arrestarlo da solo…”.

    “Il quadro della lotta era divenuto, dunque, terribilmente disperato! Munizioni esaurite… perdite molto gravi… accerchiamento ridotto gradualmente ad uno spazio ristrettissimo… fuoco da tutte le parti! Di fronte a noi, il nemico era già a pochi passi di distanza. I fianchi era stati avvolti. Alle spalle. Esso trovavasi ad una cinquantina di metri soltanto. Sparammo gli ultimi colpi che ci rimanevano… lanciammo le ultime bombe a mano… poi fummo sopraffatti e sommersi da una valanga umana proveniente da ogni parte”.

    “Erano circa le ore 7 del 12 Luglio: avevamo combattuto 24 ore quasi continuamente!”.

    Il Col. Leonardi nel dopoguerra ritornò a Gela per visitare i luoghi di Monte Castelluccio e per l’occasione lasciò un’epigrafe il cui testo fu impresso su una lapide antistante il fortilizio dello stesso Castelluccio che così recita:

…SU MONTE CASTELLUCCIO

HO INNALZATO UN MONUMENTO

AI MIEI MORTI

AI PIEDI DI ESSO

HO POSTO UNA LAMPADA VOTIVA

SEMPRE ACCESA CHE IO SOLO VEDO

COME IO SOLO VEDO IL MONUMENTO

QUESTA LAMPADA E’ IL MIO CUORE

IO NON POTRO’ MAI SPEGNERLA

FINCHE’ SARO’ IN VITA

PERCHE’ IO SOLTANTO SO QUANTO

GRANDE E QUANTO GLORIOSO

SIA STATO IL LORO SACRIFICIO…”

DANTE UGO LEONARDI

AI CADUTI

NEL QUARANTESIMO ANNIVERSARIO

DELLA BATTAGLIA DI GELA

LA CITTA’ MEMORE POSE 1983

 

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