QUOTIDIANO


La Sicilia

DISTRETTO GELESE

Settembre 2020

 

DA TERRANOVA A GELA, STORIA DI DUE RIVOLTE

 

 

    Tra i tanti avvenimenti che hanno contraddistinto la storia recente di Gela ne abbiamo scelto due particolarmente drammatici; si tratta di due rivolte popolari contro l’istituzione, distanti tra loro 64 anni, che hanno lo scopo di riflettere particolari condizioni sociali ed economiche della popolazione locale. Si scrive di due avvenimenti, uno del 1919 e l’altro del 1983, che oggi nella più completa insipienza sono stati relegati nell’oblio.

 

La rivolta del mese di ottobre del 1919

    Il primo avvenimento, che risale al 1919, ha come riferimento tre soggetti: un’industria cotonifera la SICIM (acronimo di Società per l’Incremento della Cotonicultura nell’Italia Meridionale), il ceto contadino di Terranova di Sicilia e la coltura del cotone nell’Isola, pertanto, è necessario introdurre brevemente il lettore nel contesto produttivo di questa fibra tessile.

    Introdotto nell’Isola dagli arabi nel XII secolo, dopo una lunga fase di prosperità, il cotone subì un durissimo contraccolpo all’inizio del XVII secolo con l’ingresso in Europa della produzione asiatica, cui si aggiunse, nel secolo successivo, quella nordamericana. Il periodo migliore di produzione del cotone in Italia coincise con la guerra di secessione americana (1861-1865), quando il tracollo improvviso delle esportazioni d’oltreoceano costrinse le industrie manifatturiere inglesi a cercare in Europa fonti alternative di approvvigionamento.

    La fine della guerra civile americana e la ripresa dell’esportazione dagli Stati Uniti ridimensionarono la produzione italiana di questa fibra tessile.

    Ma vediamo che cosa accadde a Terranova nella prima decade d’ottobre del 1919. C’era una questione aperta tra la SICIM e Casa Pignatelli da una parte e dall’altra il bracciantato agricolo locale relativamente al patto di mezzadria sia per la coltura del cotone sia per le terre in genere incolte, patto che era considerato ostile dai contadini i quali invece volevano che si applicasse la piccola affittanza, in quanto molti di essi si trovavano disoccupati, in particolare quelli tornati dal servizio militare dopo aver contribuito nel lontano Nord-Est alla causa dell’Unità d’Italia. Intanto, la SICIM intendeva realizzare la coltivazione del cotone su larga scala nelle pianure di Terranova e di Catania utilizzando quello egiziano.

    Nei primi giorni di ottobre del 1919, preceduto da uno stato di agitazione di diverse settimane, il bracciantato agricolo terranovese proclamò uno sciopero con il blocco di tutte le strade di accesso alla campagna. La forza pubblica che “fu per i padroni” disperse gli scioperanti “a suon di legnate”, arrestandone molti oltre ai promotori. Il giorno dopo, grazie all’intervento del Consiglio dell’Unione Agricola e di Ulisse Carbone, allora segretario della Confederazione Italiana dei Lavoratori, tutti gli arrestati furono rimessi in libertà, salutati in Piazza Umberto I da un’enorme folla. Durante lo sciopero le campagne rimasero deserte, addirittura anche gli stessi operai dello stabilimento di sgranellatura del cotone della SICIM incrociarono le braccia. Il pomeriggio di giovedì 9 ottobre un carretto carico di cotone stava transitando per le vie della città, quando fu attorniato dagli scioperanti che intimarono al conducente di ritornare a casa. Nonostante la decisione del proprietario del carro di ascoltare il desiderio dei dimostranti, la forza pubblica che presidiava la città con a capo di un maresciallo dei Carabinieri intervenne pesantemente usando violenza contro gli scioperanti i quali, di corsa, si avviarono verso il Municipio per denunciare tale violenza alla Commissione esecutiva dei contadini. La forza pubblica di stanza davanti al Municipio, però, forse impaurita dalla concitazione della massa degli scioperanti, sparò sulla folla senza l’ordine del Commissario, nonostante che lo stesso si trovasse in mezzo ai contadini. Gli scioperanti si dispersero subito nelle strade adiacenti a via Giacomo Navarra Bresmes. Rimasero a terra due morti e sei feriti gravi. Subito dopo le Forze dell’Ordine, temendo la reazione della folla, si barricarono nel Municipio. Dopo aver dato aiuto ai feriti e trasferiti i due morti, migliaia di manifestanti ritornarono nelle loro case per armarsi e ritornare al Municipio per dare battaglia alle Forze dell’Ordine. Ma, un provvidenziale acquazzone li fece desistere da tale proposito. L’indomani molti negozi rimasero chiusi esibendo la scritta di “Lutto cittadino”. Subito dopo, a favore delle famiglie delle vittime, fu iniziata una sottoscrizione cui contadini e operai contribuirono largamente. Anche da Catania arrivò una sottoscrizione di 2.000 per i familiari delle vittime.

    Nella piana di Terranova, dopo i tumulti popolari del 9 ottobre le masse contadine egemonizzate dal deputato popolare Salvatore Aldisio, invasero le vastissime proprietà dei principi Aragona Pignatelli, in parte concesse in gabella alla SICIM e in parte appena cedute all’Opera Nazionale Combattenti. Se per queste ultime si trattava soltanto di accelerare le pratiche per la quotizzazione, per la SICIM saltava praticamente tutto il piano di riconversione colturale già programmato. Il ripristino indiscriminato della cerealicoltura costituì, comunque, per i destini del cotone siciliano, un fattore altrettanto importante quanto l’occupazione delle terre. Dopo aver preso possesso dei terreni, i contadini si erano limitati a seminare il frumento, motivando con la prolungata siccità il rifiuto di rispettare gli obblighi contrattuali per la prevista coltivazione del cotone, e causando alla società un danno notevole.

    L’intreccio di questi molteplici fattori fece concludere anzitempo e in maniera del tutto fallimentare, l’esperimento della cotonicoltura in Sicilia. Alla fine del 1927 la SICIM fu messa ufficialmente in liquidazione.

    Ma come finì a Terranova dopo i tumulti di ottobre? Finita l’ispezione nelle campagne di Terranova della Commissione governativa, l’ispettore ministeriale dalla terrazza del Municipio arringò la folla assicurandola che avrebbe fatto emanare una serie di provvedimenti atti a risolvere equamente la vertenza. Inoltre, per evitare un grave danno economico alla città, convinse i contadini a riprendere il lavoro nei campi anche perché vi era cotone per centinaia e centinaia migliaia di lire in gran parte di proprietà degli stessi contadini scioperanti, e che ritardandone ancora il raccolto, sarebbe andato irrimediabilmente perduto. In questo modo, la grave agitazione di Terranova terminò e circa 5.000 contadini ripresero il lavoro.

 

La rivolta del mese di novembre del 1983

    Il riepilogo dei fatti riguardanti la rivolta e la relativa devastazione del Municipio di Gela del 21 novembre del 1983 sono stati articolati sulla base di diversi servizi di giornali, qui elencati tra parentesi), oltre alla presenza in quel giorno dello scrivente che scattò diverse fotografie. (Giorgio de Cristoforo, Tony Zermo e Elio Cultraro de La Sicilia di Catania; Anselmo Calaciura, Antonio La China, Maria Pino e Rocco Cerro de il Giornale di Sicilia di Palermo; Valentino Alfieri de L’Ora di Palermo; Antonio Calabrò del settimanale Panorama; Lucio Galluzzo de Il Messaggero di Roma; Amedeo Lanucara de La Stampa di Torino; Andrea Marcenaro del settimanale L’Europeo; servizio senza firma de la Repubblica).

    Con una spesa iniziale di 120 miliardi di lire, nel 1959 le società ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili) e la Finanziaria Sofid (Società Finanziaria Idrocarburi) costituirono la Società ANIC Gela S.p.A. per la realizzazione di una raffineria; il complesso, entrato in esercizio nel 1962, subì nel corso degli anni diverse variazioni sia societarie che strutturali e produttive.

    Il polo chimico (inaugurato il 10 marzo del 1965), nel 1974, tra diretto e indotto, raggiunse il più alto indice di occupazione con 7.500 lavoratori. Da allora col passare degli anni e con la crisi crescente della Chimica, iniziò una flessione occupazionale progressiva che nell’arco di quasi tre decenni ridurrà della metà tale indice occupazionale. Finiva così il sogno per Gela di diventare il nuovo Texas siciliano; lo stabilimento dell’ANIC (acronimo di Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili) rimase una cattedrale nel deserto, simbolo di quella industrializzazione senza sviluppo descritta dai sociologi Hitten e Marchioni, già all’inizio degli anni Settanta.

    Eravamo sul finire del 1983, al Comune vi era una giunta formata dalla Democrazia Cristiana e dal PLI con l'appoggio esterno del PSI, PSDI e PRI. A capo della Giunta vi era il democristiano avv. Giacomo Ventura che era stato eletto sindaco il 12 settembre dello stesso anno.

    Anticipata da manifesti e documenti per sollecitare lo sblocco dell’attività edilizia, per le 9 del mattino del 21 novembre, con concentramento nella piazza antistante all’Hotel Sileno, fu organizzata da quattro imprese locali una manifestazione di protesta con la partecipazione di muratori e manovali disoccupati del settore edilizio, di chimici in cassa integrazione, di commercianti, di artigiani, di camionisti senza noli e di proprietari di alloggi abusivi che chiedevano una certificazione di edificabilità; l’attività edilizia era entrata in crisi con le restrizioni imposte dalle autorità comunali per fermare il continuo crescere e dilagare dell’abusivismo edilizio. In quella giornata piovigginosa, Il corteo di alcune migliaia di persone, al seguito di motoapi, camion, autobetoniere, ruspe, autogrù e pale meccaniche, si diresse verso il centro, ingrossato anche dalla partecipazione degli studenti delle superiori, confluendo verso via Giacomo Navarra Bresmes e quindi in piazza S. Francesco prospiciente il Municipio. Nella piazza e nei pressi dell’ingresso secondario del Municipio c’era il grosso dei manifestanti i cui esagitati, sempre più minacciosi e con urla e invettive, pressavano sul portone d’ingresso dove a guardia c’erano poche decine tra carabinieri e poliziotti oltre ad uno sparuto numero di vigili urbani. Il sindaco Ventura, intanto, attendeva al secondo piano di ricevere una delegazione di scioperanti per sentire le loro proteste. Alla manifestazione mancavano i sindacati di categoria e i rappresentanti politici dei partiti, un’assenza questa particolarmente strana che la dice lunga, come si vedrà in seguito, sul carattere della stessa manifestazione.

    L’Amministrazione comunale, nel disporre le ordinanze di sospensione dei lavori, dei sequestri e delle apposizioni dei sigilli, coraggiosamente aveva ritenuto di farla finita con un sistema che aveva relegato la città e i suoi abitanti a vivere in condizioni molto precarie. L’obiettivo ultimo era quello di dare un minimo ordine alla situazione generale di Gela, con il rilascio in tempi brevi delle licenze edilizie in sanatoria, grazie alle quali si sarebbero potuto completare le costruzioni abusive in massima parte lasciate allo stato grezzo. Ma, evidentemente tale programma della Giunta Ventura era in antitesi a interessi ben precisi. Così scesero in campo i sobillatori che, facendo leva sul malcontento della gente rimasta senza lavoro, organizzarono quanto stava per succedere, mascherando una vera e propria sommossa in una pacifica manifestazione di protesta. I promotori della sommossa erano quelli che per anni traevano i maggiori benefici economici dell’attività edilizia abusiva e il suo blocco, deciso dall’amministrazione comunale, era vista da essi come una seria minaccia ai loro lauti guadagni. Ma la maggior colpa di quella situazione era dovuta alla pochezza della classe politica gelese e di quegli amministratori locali succedutisi nei vent’anni precedenti alla guida del Comune che non seppero, o non vollero dolosamente anche per interessi personali, dare alla città adeguati strumenti urbanistici.

    Le Forze dell’Ordine, sino all’arrivo del corteo al Municipio erano riuscite a controllare la situazione anche se alcuni esagitati avevano ingaggiato una colluttazione con alcuni poliziotti, due di questi ultimi poi finiti all’ospedale assieme a uno scioperante. Verso le 11,45, però, i partecipanti più facinorosi del corteo dopo una sassaiola e dopo avere danneggiato diversi automezzi, ebbero ben presto ragione della forza pubblica riuscendo a sfondare il cordone delle Forze dell’Ordine parato davanti al Municipio introducendosi, quindi, all’interno dello stesso sia dal portone d’ingresso sia dalle attigue finestre, seguiti dalla massa degli scioperanti. Vi fu un parapiglia generale e un fuggi fuggi da parte degli impiegati che si erano impauriti dalla massa degli scioperanti che urlava e iniziava a entrare negli uffici sfasciando la qualsiasi. I facinorosi che in precedenza sapevano già dove dovevano dirigersi, dopo aver distrutto vetrate, divelto porte e abbattuto ringhiere si portarono al primo piano entrando prima nell’Aula Magna, dove iniziarono una sistematica distruzione delle suppellettili molte delle quali scaraventate dalle vetrate delle finestre sulla strada, e successivamente nell’aula B dove erano conservati diverse migliaia di progetti presentati dai cittadini per ottenere la sanatoria delle loro costruzioni abusive, demolendo anche lì scaffalature e gettando dalle finestre armadi, scrivanie, macchine da scrivere, scaffali e carpette con documenti nelle sottostanti piazza S. Francesco e via Giacomo Navarra Bresmes, dove tutto il cartaceo fu dato alle fiamme. Ci fu anche un principio d’incendio all’interno del Municipio, fortunatamente estintosi senza altre conseguenze.

    I rivoltosi dopo aver iniziato l’opera di devastazione del Municipio si diressero nelle stanza del segretario comunale con non buone intenzioni ma l’intervento di alcuni agenti e del Commissario di P.S. fece evitare il peggio anche se gli stessi riportarono diverse contusioni. I più facinorosi, ancora non soddisfatti di quanto accaduto, si portarono nella stanza del sindaco Ventura e dopo averlo letteralmente sequestrato lo portarono fuori dal Municipio verso Piazza Umberto I, seguiti da tutti i manifestanti, dove tenne un estemporaneo discorso per cercare di rabbonire l’animo dei più esagitati. Lo stesso primo cittadino, sempre per volontà dei rivoltosi, scortato dalle Forze dell’ordine fu fatto rientrare al Municipio per un “confronto” con una delegazione degli scioperanti. Per tutta la durata dell’incontro, il Municipio rimase sotto assedio degli scioperanti che attendevano di conoscerne l’esito ma anche per avere notizia sulla la sorte di alcune persone precedentemente fermate da Polizia e Carabinieri e condotte al commissariato.

    La manifestazione si sciolse intorno alle 19,00 dopo un ultimo incontro dei dimostranti col Sindaco e dopo l’arrivo di rinforzi delle Forze dell’Ordine da Catania, da Caltanissetta e da altri capoluoghi di provincia. Il Comune per i danni subiti, oltre un miliardo di lire, fu dichiarato per qualche giorno inagibile, mentre il Pretore aprì un’inchiesta giudiziaria sui fatti accaduti. Nella stessa serata nella sede della P.S. di Gela si tenne un improvvisato vertice tra il Colonnello dei Carabinieri, funzionari della Questura, dirigenti di Polizia e Carabinieri e della Magistratura. 

    Nel luglio del 1984, a sette mesi dalla rivolta, con un blitz notturno le Forze dell’Ordine arrestarono 45 persone (a cui alcuni mesi prima  erano arrivate comunicazioni giudiziarie)  su ordine di cattura emesso dal giudice istruttore presso il Tribunale di Caltanissetta  con l’imputazione di invasione, devastazione, saccheggio di pubblico edificio, incendio doloso aggravato, blocco stradale, violenza e lesione nei confronti delle Forze dell’Ordine e ancora di violenza, sequestro di persona e estorsione nei confronti del sindaco di Gela. Agli arresti si resero latitanti sette persone che risultavano tra gli organizzatori della rivolta.  A uno degli arrestati, nell’ottobre dello stesso anno, gli fu contestato pure l’imputazione di istigazione all’omicidio. Nel gennaio del 1985 si dispose il rinvio a giudizio degli imputati che nel dicembre dello stesso anno, però, al di là di qualche lieve condanna, furono quasi tutti assolti per insufficienza di prove e per non avere commesso il fatto. Si sgonfiò così in Tribunale la vicenda delle devastazioni nel Municipio di Gela in cui, secondo i giudici, non ci furono organizzatori.

Nuccio Mulè

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