QUOTIDIANO
La Sicilia DISTRETTO GELESE Gennaio 2021 LA CARTOLINA DI OGGI ![]()
Si può
comprendere,
anche se in
misura ridotta,
che nel
dopoguerra gli
amministratori
gelesi su
indicazione
della Prefettura
di
Caltanissetta,
abbiano divelto
nel 1953 il
monumento alle
medaglie d'oro
Guccione e
Casciana che era
stato realizzato
durante il
regime ed
ubicato sul
marciapiede di
via Giacomo
Navarra Bresmes,
ad una decina di
metri dal
Municipio, di
fronte via Pisa.
Era in atto
allora la
defascistizzazione
e quindi
bisognava dare
un esempio del
nuovo corso
repubblicano,
anche se il meno
indicato e in
ritardo di otto
anni dalla fine
della guerra. E
ciò perchè nel
monumento vi
erano due fasci
littori che si
sarebbero potuti
togliere
lasciando il
resto, ma si
preferì “buttar
via l'acqua
sporca con il
bambino dentro”.
Però, non si
capisce che cosa
c'entrassero
questi due eroi
terranovesi del
monumento con il
fascismo, dal
momento che il
Guccione
(decorato di
medaglia d’oro)
immolò
eroicamente la
propria vita
durante la Prima
Guerra Mondiale,
mentre il
Casciana
paradossalmente
perse la vita a
Trieste nel 1921
per difendere un
gruppo di
persone
propriamente
dall’azione
degli squadristi
del nascente
regime. E’
scontato che
allora per
questione di
propaganda si
poteva fare
questo ed altro.
Adesso,
riferendoci alla
cartolina di
oggi, ritorniamo
indietro al 1953
quando
l’Amministrazione
comunale
stoltamente si
rese
responsabile
to court del
trasferìmento
del busto
marmoreo di re
Umberto I,
togliendolo
dalla piazza
omonima per
portarlo alla
Villa Garibaldi
e sostituendolo
con una statua
bronzea di una
donna con le sue
rotondità tutte
nude. Fatta
passare poi
arbitrariamente
come Cerere, una
divinità materna
della terra e
della fertilità,
per il semplice
fatto che
l’autore, il
bagherese
Sivestre Cuffaro,
avesse messo in
mano una spiga
di
triticum
turgidum,
ovvero di grano,
e peraltro senza
sapere a quale
città andasse a
finire la stessa
statua bronzea,
dal momento che
gli fu
commissionata
dalla Regione
siciliana di
allora. A parte
il fatto che la
dea
nell'iconografia
classica e
stata, ed è,
sempre
rappresentata
abbastanza
vestita, una
matrona severa e
maestosa, con
una corona di
spighe sul capo,
una fiaccola in
una mano e un
canestro ricolmo
di frutta
nell'altra. E
questa statua
bronzea
totalmente nuda
di Piazza
Umberto I è ben
lontana dal
possedere tali
caratteristiche
se non appunto
per la presenza
di una sola
spiga di grano
(sic). In realtà
esiste qualche
immagine di un
Cerere succinta,
come ad esempio
quella
affrescata da
Paolo Farinati,
nella Villa
Nichesola-Conforti
di Valpolicella
in provincia di
Verona, col
petto e la
pancia scoperti
ma con una
corona di spighe
sulla testa e
accanto un
canestro a forma
di cornucopia
colmo di frutta.
Attualmente
questa cartolina
d’epoca, oggi
alla nostra
attenzione, è
una delle più
animate di
Terranova di
Sicilia in
circolazione.
L’illustrazione
si riferisce
all’inaugurazione
del busto
marmoreo in
memoria di re
Umberto I,
avvenuta il 20
settembre del
1903, dopo tre
anni
dall'assassinio
del monarca.
Questo
monumento,
opera dello
scultore
palermitano
Antonio Ugo,
fu voluto
e elargito da
tutta la città e
rappresentò il
frutto di
nobilissimi
intendi verso
Casa Savoia, che
aveva fatto
l'Italia, e
l'intenso
sentimento
sabaudo che i
Terranovesi
nutrivano nel
loro cuore
memori di quel
Risorgimento
nazionale allora
così vicino
nello spazio e
nel tempo, una
consapevolezza
dì amor patrio
oggi purtroppo
abbastanza
desueta.
La cartolina,
che riporta sul
margine laterale
la didascalia
dell’antica
denominazione di
piazza
Duomo, è
conosciuta tra i
collezionisti
come quella
dello
“sfregiato”,
perché tra la
moltitudine
delle persone ne
compare una (in
primo piano a
sinistra tra
alcuni ragazzi)
che sembra avere
uno sfregio
sulla guancia
destra. Infine,
si notino l’uso
generalizzato di
cappelli sulla
testa delle
persone, ragazzi
compresi, e
sulla facciata
del Palazzo
Rosso, alle
spalle del
monumento, le
modanature
settecentesche
che furono
eliminate
probabilmente
verso la fine
degli anni Dieci
in concomitanza
dell’edificazione
di un altro
piano.
Nuccio Mulè
RICORDO DI
ATTILIO
GUGLIELMINO, IL
FOTOGRAFO DI
GELA
Il 5 gennaio di ventun anni fa moriva il comm. Attìlio Guglielmino, fotografo di Gela, che con le sue fotografie ha lasciato un patrimonio documentale d’inestimabile valore che abbraccia quasi un cinquantennio di manifestazioni, eventi, personaggi, monumenti e paesaggi di Gela. Con lui se n’è andato un personaggio vero, un uomo di qualità umane e integrità morali eccezionali, un caro ed affettuoso gentiluomo cui lo scrivente si può vantare di essergli stato amico. Attilio Guglielmino è scomparso alla veneranda età di 90 anni di cui ben 85 trascorsi a Gela, infatti egli era originario della città di Modica dove nacque il 30 ottobre del 1910. Trasferitosi a Gela grazie al fatto che suo padre fu qui richiesto dalla scuola di musica della banda comunale, di cui fu poi vicedirettore, Guglielmino dopo aver compiuto gli studi superiori si appassionò all'arte della fotografia al punto tale da non continuarli più per mettere su, ancora giovanissimo, uno studio fotografico prima in via Giacomo Navarra Bresmes e poi definitivamente in via Ventura. La sua abilità ed il senso artistico spiccato, certamente derivati dal padre che era non solo fotografo, ma anche valente pittore, lo portarono subito a riscuotere notevoli consensi da parte di moltissimi gelesi, i quali sempre più frequentemente lo chiamavano per fotografare qualsiasi avvenimento; non solo matrimoni, battesimi, feste danzanti e altro, ma a volte anche funerali. La sua lunga attività di fotografo lo vide a contatto con ogni ceto sociale, dalla gente umile che, vestita a festa, andava a farsi una posa fotografica, alla gente aristocratica che spesso lo richiedeva fino a casa per foto di gruppo familiare. Guglielmino, uomo semplice e onesto, sempre di comportamento gentile e amabile, accontentava tutti al meglio ritraendoli con quella professionalità che oramai le era riconosciuta da tutta la città. Se fosse possibile riascoltare le sue parole su “come realizzare una fotografia” sicuramente si rimarrebbe affascinati della descrizione così come è successo allo scrivente quando tempo fa lo andò a trovare. Oggi le foto vengono stampate in meno si un'ora da una macchina, diceva, mentre prima era molto diverso; infatti, “…bisognava avere a disposizione una camera oscura, bisognava prepararsi lo sviluppo, un intruglio quasi di alchimia degli antichi farmacisti, sia per il negativo (che era una lastra di vetro emulsionata) che per il positivo, e poi ancora il fissaggio e infine la stampa che veniva sempre perfezionata dal magistrale ritocco di matita. Ma prima dello sviluppo bisognava farla la fotografia…” E, in quello stesso incontro, ancora altre disquisizioni sul tipo di macchina fotografica, sul tipo di pompetta per lo scatto e sulla posa che era la cosa più importante per fare un'ottima fotografia. Dagli anni Trenta in poi si può affermare che la maggior parte delle immagini di Gela e dei sui abitanti hanno avuto la firma di Attilio Guglielmino. Ma non solo Gela e gelesi nel mirino della sua reflex, anche personaggi di livello altissimo quali Enrico Mattei e Benito Mussolini (venuto qui il 14 agosto del '37), fotografato tra l'altro quando ballava al lido Gela con la moglie del Prefetto e con donna Cesarina Morso. Guglielmino fu l'ultimo fotografo che ritrasse il Presidente dell'ENI, mentre stava per partire dal nostro aeroporto di Ponte Olivo per volare in quello di Catania, poche ore prima della sua tragica scomparsa nel cielo di Bascapè. Nel marzo del 1948, per i meriti professionali acquisiti, Guglielmino ricevette dall'Ordine Capitolare della Stella e Croce d'Argento della Santa Sede la Commenda con il fregiarsi del titolo di Commendatore. Guglielmino, inoltre, col passare degli anni era sempre più richiesto da enti privati e pubblici come fotografo professionista; così prestò il suo qualificato servizio per il Partito Fascista di Gela prima e per il Consorzio di Bonifica poi; sue sono tutte le fotografie dei lavori della Diga del Disueri sul fiume Gela; negli anni Cinquanta ricevette un incarico anche dall'Ufficio Tecnico Comunale; ancora più recentemente, siamo all'inizio degli anni Sessanta, richiesto dall'ing. Eugenio Semmola, diventò fotografo ufficiale dell'ANIC per fotografare da un elicottero tutti le fasi dei lavori del costruendo petrolchimico. Nel dicembre del 1995 su proposta dello scrivente il Comune di Gela, il Mo.I.Ca. e l’Archeoclub d’Italia conferirono una targa ad Attilio Guglielmino come giusto riconoscimento del sua professionalità nel campo della fotografia e come l'espressione più bella e più sincera dei sentimenti di stima e di ringraziamento per quello che ha lasciato a noi e alle future generazioni. La targa così recitava: AL COMM. ATTILIO GUGLIELMINO IN SEGNO DI STIMA E RICONOSCENZA PER LA SUA FOTOGRAFIA CHE TRAMANDA GELA DEI TEMPI TRASCORSI ALLA PIU' REMOTA POSTERITA' COMUNE DI GELA MO.I.CA. ARCHEOCLUB D'ITALIA 1° dicembre 1995 IL CIMITERO MONUMENTALE DI GELA ![]() Dopo l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, il divieto comunale di seppellimento nelle chiese e negli spazi adiacenti fu introdotto nel Regno delle Due Sicilie con le leggi borboniche 11 marzo 1817 e 12 dicembre 1828. L’art. 1, della prima legge, relativo alla costruzione dei camposanti, recitava: “Il seppellimento de’ cadaveri umani ... dovrà esser fatto per inumazione, ossia interrimento, non già per tumulazione, ossia dentro le sepolture”; insomma, la pratica più igienica da seguire affinché “le sue esalazioni non possano esser spinte verso l’abitato” doveva essere quella di seppellire i morti sotto terra nei camposanti, spazi appositi recintati e distanti dalle città, seppellimento che avrebbe favorito la decomposizione dei cadaveri diminuendo il rischio di epidemie. L’applicazione a Gela (allora denominata Terranova) delle suddette leggi fu ritardata di quasi un trentennio e ciò probabilmente a causa dei moti rivoluzionari in Sicilia del 1820 ma forse anche per motivi economici del Comune. Comunque sia andata, in un verbale datato 1° settembre del 1844, riscontrabile in un carteggio di “Sanità” dell’Archivio storico comunale, si legge di una processione popolare con “autorità civili e religiose, che dalla chiesa Madre si avviano verso contrada Capo Soprano dove avverrà la benedizione del Camposanto”. Dal carteggio di cui sopra si legge anche che fino al 1840 in diverse chiese di Terranova esistevano 54 sepolture, prima della loro chiusura, così ripartite: Chiesa Madre: n.13; Ch. S. Giovanni n.2; Ch. Rosario n.9; Ch. Santa Caterina n. 1; Ch. S. Antonio n.2; Ch. S. Nicola n.3; Ch. Santa Lucia n.1; Conservatorio delle orfane n.1; Ch. S. Francesco di Paola n.5; Ch. S. Francesco d’Assisi n. 17. Adesso, grazie al risultato di una serie di ricerche effettuate su carteggi di patrie memorie del locale Archivio storico, lo scrivente è in grado di approntare una sintetica e inedita storia del Camposanto, oggi Cimitero Monumentale della città. Il progetto (definito “Piano d’arte e perizia”) della costruzione del Camposanto a Terranova in contrada Capo Soprano fu redatto in data 9 febbraio 1840 dall’Arch. Emmanuele Di Bartolo, forse padre o fratello del famoso architetto Giuseppe, quest’ultimo autore nel 1844 della facciata della chiesa Madre. In origine il Camposanto (vedi piantina qui riprodotta), prima del suo ampliamento, era costituito da un rettangolo di 131 m. di lunghezza e 41,35 m. di larghezza, per una superficie di 5.416,85 mq., con “una reale di mq. 3.746,85 e una disponibile di mq. 1.670,00”. Il sistema maggiormente utilizzato per il contenimento dei cadaveri era quello a inumazione, ovvero il seppellimento del cadavere in una fossa scavata nella terra. Il Camposanto di Terranova aveva due ingressi, la cosiddetta “porta infelice” a est, da cui passavano i carri funebri per entrare nel cimitero, e l’altro a sud (prospiciente la carreggiabile Terranova-Licata diventata poi prolungamento del Corso principale), da cui si accedeva all’area cimiteriale. Esternamente al muro perimetrale del cimitero, sui lati nord, est e ovest, vi erano dei filari di alberi e uno “spazio viabile di circonvallazione al Cimitero”, mentre sul lato sud era presente un “boschetto” che iniziava dalla chiesetta di S. Biagio, utilizzata come “vecchia sala di osservazione dei cadaveri” e finiva prospiciente la carreggiabile suddetta. Lo spazio interno del cimitero era costituito da 8 aiuole di diversa grandezza disposte simmetricamente su due file e separate da viali di accesso. Al centro del cimitero era presente una piazzola con una croce in pietra su un piedistallo. L’incremento demografico a Terranova tra il 1830 e il 1880, che portò la popolazione da circa 10.000 a quasi 18.000 abitanti, comportò da parte dell’Amministrazione comunale di allora l’esigenza di ampliare il vecchio Camposanto per accogliere i morti che in particolare nel quinquennio 1878/1882 furono di 531 in media annua. Pertanto, nel 1883 si diede incarico agli ingegneri comunali Rocco Failla e Angelo Di Bartolo di redigere un progetto di ampliamento del Camposanto, progetto che, per quanto ci è dato sapere, fu firmato dal mentovato ingegnere Failla; Nereo Manetti, Regio Delegato Straordinario del Comune di Terranova, a proposito di tale ampliamento scriveva raccomandando agli ingegneri che “…si deve considerare questo non come casa nuova da farsi, ma come modificazione o completamento di cosa già fatta”. Un primo progetto del Failla del 18 novembre 1873 sull’ampliamento a nord del vecchio cimitero a nord avrebbe comportato un aumento di superficie di 17.423,25 mq., da dividere in quattro sezioni su altrettanti terrazzamenti della larghezza di 92,45 m. (i terrazzamenti attuali della quattro sezioni). Un secondo progetto del Failla, in data 10 gennaio 1887, prevedeva anche l’ampliamento del cimitero verso est con un ingresso principale a sud prospiciente la carreggiabile Terranova-Licata (l’attuale viale principale con le cappelle gentilizie ai lati e il sacrario dei caduti in guerra in fondo). Tali progetti, però, in seguito alla scomparsa del Failla, furono in parte ripresi e modificati in data 5 settembre 1890 dal nuovo progettista Ing. Salvatore Buscemi. Alla fine, il 12 maggio 1893, i lavori del progetto definitivo furono concessi in appalto agli impresari Gaetano Turco e Giacomo Fargetta, per una spesa prevista di 45.000 lire, e iniziati il 19 maggio dello stesso anno. Il collaudo dell’opera fu stilato in data 12 settembre 1895 dall’Ing. Giuseppe Maria Ciofalo di Termini Imerese. Due anni dopo, il 10 aprile 1897, la Commissione comunale di vigilanza del cimitero, in merito alla destinazione di una parte dello stesso a sezione monumentale, emise un regolamento per disciplinare la costruzione di cappelle gentilizie e ricordi marmorei, regolamento che negli ultimi cinquant’anni è stato eluso e calpestato con la complice e indolente tolleranza, se non dolosa, dell’istituzione comunale competente. Prima dell’inizio dei lavori di ampliamento del cimitero monumentale originario, su diverse superfici di proprietà del provinciale agostiniano P. Giuseppe Tasconi contigue alla chiesetta di S. Biagio, furono edificati la Chiesetta di S. Nicola di Tolentino (aperta al culto il 10 ottobre 1880), il Colombaio cimiteriale “per le Figlie di Maria della Consolazione” e un convento, quest’ultimo oggi di proprietà comunale e sede della Biblioteca. Recentemente, in merito alle estumulazioni paventate da questa amministrazione comunale per recuperare spazi disponibili per la tumulazione, non si riesce a capire perché le attuali aree di terreno delle quattro sezioni terrazzate del cimitero monumentale risultano da tempo inutilizzate per le inumazioni. Nuccio Mulè --------------------------------------------- Dicembre 2020 ![]()
LA CONCHIGLIA, UN RUDERE DI
CEMENTO ARMATO PIENO DI RICORDI Non abbiamo notizie certe sul periodo di nascita delle strutture balneari a Gela, però, su un manifesto pubblicitario del 1889, che si trova presso l’Archivio Storico del nostro Comune, già ne comincia a comparire la rèclame: “Grande Stabilimento Balneare Gela in Terranova Sicula” dei F.lli Marletta Cellura; nei decenni a seguire, a partire dal 1900, compaiono il “Lido Gela”, “Lido Elios”, il “Lido Mondarino” e il “Lido Royal”, chiamati impropriamente “lidi di tavola” o “chalet” balneari che fino alla fine degli anni Cinquanta si impiantavano ad ogni stagione estiva sulla battigia della spiaggia. E più recentemente “Lido Eden”, “Samparisi”, “Sorriso” (a Falconara Sicula), “Lido Turistico”, “Macchitella”, “Roccazzelle”, “Manfria”. Poi da quando furono realizzati il tratto che va dal porto rifugio al quartiere Macchitella e il nuovo progetto del lungomare nacquero altri stabilimenti balneari. I lidi di tavola I “lidi di tavola”, costruzioni prodotte tutte in legname, erano realizzati da diversi privati ad ogni inizio di stagione balneare e smontati successivamente al termine di essa. Gli stabilimenti balneari erano solitamente strutturati su uno stesso modello: un corpo quadrangolare, disposto in buona parte in mezzo all’acqua, e due bracci laterali sui quali erano ubicati i filari delle cabine. Dalla strada e fino allo stabilimento si snodava una passerella in legno con ringhiera, sopraelevata di qualche metro sulla sabbia, che faceva accedere al lido. Il corpo centrale dello stabilimento a sua volta era diviso in due sezioni: una più piccola, prospiciente l’ingresso, adibita ai servizi balneari e a bar, e l’altra ben più grande, posteriormente alla prima, adibita a sala multiuso per trattenimenti danzanti, spettacoli, ristorante, ricorrenze divario tipo, ma anche matrimoni e feste. Ad ogni lido erano di pertinenza dei filari di casotti sulla sabbia antistante alla battigia, mentre dietro di essi vi erano quelli di proprietà privata dei cittadini anch’essi montati e smontati sistematicamente a inizio e a fine stagione balneare. Mussolini al Lido Gela
Un avvenimento di una settantina di anni fa, precisamente sabato 14 agosto del 1937, che viene sempre ricordato, immortalato peraltro da un cine-giornale dell’Istituto Luce, è quello del ballo di Benito Mussolini al “Lido Gela”, con una signora aristocratica gelese, Cesarina Morso, e con la moglie del prefetto di Caltanissetta, al suono di un’orchestrina che intonava il motivetto “Vivere senza malinconia". La nascita della Conchiglia L’ultimo stabilimento balneare in legno costruito sulla spiaggia, in prospicienza del centro storico murato, fu il “Lido Gela” nell’estate del 1957. L’anno successivo sullo stesso posto nacque il Lido “La Conchiglia”, un complesso balneare in cemento armato con un corpo principale a forma di valva di mollusco e dei bracci laterali che ospitavano le cabine; il tutto edificato su palafitte in mezzo al mare. Il progetto risalente al 1954, allora considerato molto ardito e raro nel suo genere, fu realizzato dai fratelli Ventura con la spesa di 160 milioni di vecchie lire su disegno del geometra Filippo Trobia e degli Ingg. Salvatore Trobia e Vittorio Dalla Noce. L’inaugurazione avvenne il 24 giugno del 1958.Cantanti, spettacoli e cultura Il Lido “La Conchiglia” oltre a rappresentare subito il centro dell’attività balneare di Gela e dintorni fu anche il locale più frequentato e più conosciuto dai forestieri in tutta l’Isola, anche perché con una certa frequenza ospitava serate canore con cantanti e presentatori più in voga in Italia in quei momenti come Mike Bongiorno, Corrado, Enzo Tortora, Alberto Lupo, Peppino di Capri, Rita Pavone, Teddy Reno, Edoardo Vianello, Wilma Goich, Claudio Villa, Gianni Morandi, Lucio Dalla, Albano, Little Tony, Milva, Massimo Ranieri, Renato Carosone, Gegè Di Giacomo, Pooh, Nomadi, Claudio Lippi, Arturo Testa, Adamo, Nilla Pizzi, Aurelio Fierro, Luciano Tajoli, Emilio Pericoli, Mago Zurlì, Eloisia Cianni (Miss Italia 1958), ecc.; anche Domenico Modugno, reduce dal successo del festival di San Remo del 1958 con la canzone “Nel blu dipinto di blu”», venne a cantare al Lido “La Conchiglia”. Ed ancora, Quartetto Cetra, Peppino di Capri, Andrea Giordana, Massimo Ranieri, Tony Cucchiara, Carletto Delle Piane e anche il presentatore-principe Pippo Baudo; la Conchiglia oltre a diverse mostre, sfilate di moda e spettacoli anche di lotta libera, fu sede di convegni di studio di uomini politici di primo piano come Saragat, Nenni, Medici, Mattei, Scelba, Piersanti Mattarella, ecc.; ospitò anche re Gustavo di Svezia che a Gela era solito venire ogni anno in estate. E non solo cantanti, attori, big della musica leggera e presentatori di fama anche serate culturali come la manifestazione “II Sileno d'oro”, organizzato in onore di ospiti d'eccezione; il poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel 1959 per la Letteratura, e il docente universitario di Scienze delle finanze e Diritto finanziario Emanuele Morselli, nativo di Gela; oltre ai suddetti furono anche ospitati Renato Guttuso, l'editore Mursia ed altre personalità eccezionali.
La decadenza A metà degli anni Sessanta, però, cominciò a funzionare a pieno ritmo lo stabilimento petrolchimico dell’Anic e, pertanto, la spiaggia ed il mare di Gela subirono i contraccolpi dell’inquinamento divenendo praticamente poco fruibili e di conseguenza abbandonati. La stessa spiaggia, a completamento del quadro di degrado, cominciò pure a ridursi al punto tale che fu necessario la posa di frangiflutti per arginare l’avanzata del mare che già era arrivato fino a margine della strada del lungomare. In questo contesto Il Lido “La Conchiglia” venne lentamente abbandonato dai frequentatori, così che, col passare delle stagioni, andò sempre più decadendo fino a diventare solo un locale per trattenimenti di matrimonio. Successivamente il locale diventò sempre più decrepito fino a quando i proprietari l’abbandonarono completamente. Preda di occasionali visitatori e di vandali, il locale fu spogliato degli arredi e persino degli infissi. La fine
Nel
giugno del 2007 accadde quel che
nessun profano mai avrebbe
potuto immaginare, e cioè il
collasso dell’ultima parte del
braccio ovest; infatti, i pali
che la sostenevano, corrosi
dall’usura del tempo, non
ressero più e così si
accartocciarono fragorosamente
su se stessi. Alla notizia
clamorosa del rovinoso crollo,
riportato addirittura dai mass
media in campo nazionale, seguì
una passerella di affermazioni
di diverse persone che per
intonarsi all’accaduto si
lasciarono andare a diverse
elucubrazioni mentali oltre a
stracciarsi le vesti e a darsi
“pugni nel petto” recitando un
improbabile mea culpa. Troppo
tardi per i rimpianti. Qualche
mese dopo, per motivi di
sicurezza, fu diroccato anche il
braccio est riducendo così quel
che era il Lido “La Conchiglia”
di una volta ad un solo corpo
centrale che recentemente è
stato transennato perché
pericolante, in attesa anche
questo o di collassare su ste
stesso o di essere demolito.
Molto discutibile è stata poi la
proposta di vendita del rudere
da parte della Regione Non si è
voluto mai riconoscere che lo
stabilimento balneare “La
Conchiglia” era diventata
nell’immaginario collettivo, non
solo dei gelesi, un simbolo
oltre che un esempio di
archeologia balneare e quindi di
conseguenza un vero e proprio
bene culturale da salvaguardare.
Oggi cosa resta del Lido “La
Conchiglia” se non un relitto di
cemento armato pieno di ricordi
del tempo che fu, “…dov’è
silenzio e tenebre la gloria che
passò”, che riposa nel suo
sarcofago di sabbia all’aperto,
aspettando che l’usura del tempo
ne cancelli anche le tracce II
Lido “La Conchiglia”, una favola
iniziata bene e finita male.
Nuccio Mulè
IN RICORDO DI IGNAZIO NIGRELLI
Vent’anni fa mancava alla vita
l’amico prof. Ignazio Nigrelli;
era nato a Leonforte nel 1926 e
dal 1940 al 1946 era vissuto a
Gela dove aveva conseguito la
licenza liceale. La sua
dipartita ha lasciato
sicuramente una traccia profonda
in quanti lo conobbero come
studioso e cultore di patrie
memorie.
Ponderosa è stata la sua
produzione nel campo della
storia locale e sui beni
culturali e ambientali e
rammentarla sarebbe argomento
più da opuscolo che da articolo
di giornale; i suoi studi e le
sue ricerche non si sono fermati
ai canoni usuali della
microstoria ma si sono sempre
inseriti in una prospettiva
storiografica di più ampio
respiro; inoltre, si è
interessato degli aspetti
ambientali che ha inserito
sempre nel contesto storico
trattato. Importantissima è
stata una delle sue ultime
pubblicazioni, realizzata in
concorso con Liliane Dufour
(studiosa di storia urbana della
Facoltà di Architettura di
Parigi), su Gela, dal titolo “Terranova,
il destino della città
federiciana”, una pietra
miliare per conoscere la storia
medievale e moderna di Gela.
Il prof. Nigrelli, già
Presidente Regionale di Italia
Nostra e assistente alla
cattedra di Storia Medievale e
Moderna dell’Università di
Catania, collaborò a riviste
italiane e straniere, tra cui:
Italyan Filolojisi di
Ankara,
Civiltà mediterranea di
Palermo,
Lunarionuovo di Catania,
Sicilia illustrata di
Catania,
KalòsArte in Sicilia di
Palermo,
Archivio Storico per la Sicilia
Orientale di Catania.
Copioso è stato il numero di
saggi, su riviste specializzate
e in atti di convegni di studio,
e di articoli pubblicati in
quotidiani, come
L’Ora,
Gela Nostra,
Movimento Operaio,
Italia Nostra,
Civiltà mediterranea,
Sicilia Illustrata,
Kalòs, ecc.; tra essi si
ricorda:
La fondazione federiciana di
Terranova ed Augusta nella
storia medievale della Sicilia,,
in
SICULORUM GYMNASIUM, n.s.,
a. VI n. 2, luglio-dicembre
1953, articolo citato e
utilizzato da molti autori;
numerosi sono stati anche i
volumi pubblicati sempre scritti
con cura e ricchi di dati
storiografici.
Notevole inoltre è stato il suo
contributo nel sociale; infatti,
oltre ad essere stato dal 1977
presidente della sezione di
Piazza Armerina di Italia
Nostra, dal 1995 vicepresidente
del Comitato Tecnico Scientifico
dell’Ente Parco per la Provincia
di Enna, dal 1994 al 1995 membro
del Comitato Stato-Regione e
Enti Locali-Ambientalisti per
l’esame del Piano di risanamento
ambientale di Gela, è stato
anche promotore di convegni di
studi e di attività di
promozione culturale come, ad
esempio, “L'età
di Federico II nella Sicilia
Centro-Meridionale: città,
monumenti, reperti: atti delle
Giornate di studio: Gela 8-9
Dicembre 1990”, di cui fu
prodotta nel 1991 una
pubblicazione a cura di Salvina
Fiorilla e Salvatore Scuto.
Al momento della scomparsa,
Ignazio Nigrelli stava lavorando
sulla storia di Niscemi, lavoro
commissionatagli dalla rivista “Kalòs,
arte
in Sicilia” e al saggio “Ambiente,
popolamento e territorio della
Sicilia centro meridionale dal
XII al XV secolo” che
avrebbe dovuto presentare come
relatore nel convegno "L'urbanistica
delle città medievali italiane.
L'Italia meridionale e insulare
secoli XIIXV", organizzato
dal prof. Enrico Guidoni a
Palermo. Il prof. Ignazio Nigrelli, di cui mi pregio di essergli stato amico, è scomparso dalla scena del mondo il 10 luglio del 2000, lasciando agli amici l’esempio prezioso delle sue rare virtù ed il retaggio di una onorata carriera di studioso di patrie memorie oltre che di docente di Lettere nella scuola.
Nuccio Mulè
LA CARTOLINQA DI OGGI
L’ARMONIUM DELLA VILLA COMUNALE
La cartolina di oggi, con una
pregiata immagine a colori
pastellati, ci fa vedere l’armonium,
un grande palco di forma
circolare, largo, alto e con
caratteristica ed artistica
copertura a cupola, che
troneggiava nella nostra villa
comunale; non si sa con
precisione quando fu costruito,
probabilmente si trattava di una
struttura realizzata verso la
seconda metà dell’Ottocento dal
momento che la villa,
trasformazione dell’orto dei pp.
Cappuccini, fu realizzata nel
1870. Il palco serviva ad
ospitare la banda musicale che
quasi con cadenza settimanale
eseguiva dei concerti a cui
assistevano sempre una notevole
moltitudine di persone. Nel
corso dei decenni numerosi e di
notevole talento furono i
direttori e i musicanti della
nostra banda, in particolare, in
pieno periodo fascista, quando
nella nostra città nacque ad
opera di don
Pippineddu (Giuseppe)
Navarra una scuola di musica
divenuta poi Liceo musicale.
Verso gli anni Venti dal palco
prima fu eliminata la copertura
poi, verso l’inizio degli anni
Cinquanta lo stesso
armonium fu completamente
smantellato è ridotto a rottame:
non si è mai saputo il perché e
nemmeno poi dove siano andati a
finire i resti. Stessa sorte
purtroppo ebbero diverse altre
opere come gli orologi con
relative campane della chiesa di
San Rocco, del vecchio Municipio
e del Convitto Pignatelli.
Gli
anni Cinquanta, Sessanta e
Settanta purtroppo hanno
rappresentato per i nostri beni
culturali un’epoca disastrosa.
All’insegna del “rinnovamento”
della città, infatti, furono
eliminati molti beni culturali
tra essi antichi palazzi come
l’albergo Trinacria in piazza
Umberto I, il cinquecentesco
palazzo Morso nella via omonima,
mezzo palazzo Drogo-Di Bona,
quello del conte Panebianco sul
Corso, ecc.; ed ancora basolati
di strade, di piazze e di vicoli
ma anche monumenti antichi di
grande valore come la “turrazza”
trecentesca di via Verga (torre
di epoca federiciana delle mura
di cinta), Porta Marina del
1500, la chiesa di Sant’ Antonio
Abbate e il convento dei PP.
Conventuali ambedue del 1400, le
chiese di Santa Lucia e di San
Giacomo quest’ultima con portale
trecentesco, ecc. Il tutto, col
beneplacito e la beata ignoranza
degli amministratori comunali,
provinciali e regionali,
soprintendenze comprese, però,
queste ultime all’insegna
dell’indolenza. Così l’armonium
della villa comunale, a
differenza di molte ville di
altre città, dall’inizio degli
anni Cinquanta non esiste più,
nè mai si è pensato di
riproporlo.
Nuccio Mulè
Novembre
2020
GELA LUGLIO 1943, LA DIVISIONE FANTASMA
Il 10, 11 e il 12 luglio del 1943 gli
americani, dopo essere sbarcati a Gela
travolgendo la difesa costiera, ebbero filo da
torcere nell’avanzata verso la pianura e ciò
grazie ai fanti del 33° e 34° Reggimento della
Divisione Livorno, oltre e in parte ai tedeschi
dell’“H.
Goering”,
che si opposero accanitamente e che nella più
decisa controffensiva della campagna siciliana
li portò a procedere “a
testa bassa come gli era stato ordinato ”
fino alla periferia di Gela costringendo il Gen.
Patton, comandante della 7a Armata
USA, a dare l’ordine di reimbarco dei soldati
americani della colonna Dime. Fatto che
successivamente non accadde perché entrarono in
gioco le artiglierie degli incrociatori e dei
cacciatorpediniere americani che decimarono le
forze dell’Asse costringendole alla ritirata.
Quanto costò a livello di vite umane il
contrattacco della Divisione Livorno?
Nel corso degli ultimi anni c’è stato un
via vai di cifre che ha visto studiosi e cultori
di storia patria divisi nel fornire i relativi
numeri. Per dirimere la questione e quindi
fornire il numero esatto delle perdite di
allora, esiste nell’archivio dello Stato
Maggiore dell’Esercito a Roma un fascicolo dal
titolo “Comando
delle FF.AA. della Sicilia” in cui alla voce
“Perdite”
si tratta del contrattacco della Divisione
Livorno nel luglio del 1943 a Gela e che porta
la firma del Generale d’Armata Comandante
Alfredo Guzzoni. Lo scrivente, durante una
ricerca ne è venuto a conoscenza e qui riporta
fedelmente i tratti più essenziali dello stesso
fascicolo e quindi in particolare le cifre delle
perdite, pari quasi al 64%, che allora
interessarono il contingente dei fanti della
Livorno, perdite che peraltro gli valsero la
denominazione di “divisione
fantasma”.
“…I valorosi fanti della Livorno per il loro
eroico contegno in ogni circostanza e per la
virile forza d’animo con cui seppero tener testa
ad un nemico più numeroso, meglio armato e
sorretto da un ingente massa di aerei che
dominava il cielo dell’Isola, sono stati
all’altezza delle loro nobili tradizioni di
valore e di sacrificio ed hanno scritto pagine
di insuperato ed insuperabile valore.”
“…Nel totale le perdite complessive
subite dalla “Livorno” ammontano:
-
a 214 ufficiali su 505;
-
a 7.000 fra sottufficiali e truppa su 11.400,
servizi compresi.
Fra Gela e Bivio Gigliotto si sono
perduti:
-
il Colonnello Mona Comandante del 33° Fanteria
ferito e prigioniero;
-
il Maggiore di fanteria Elena ed il pari grado
di artiglieria Artigiani caduti eroicamente;
-
il Ten. Col. Del 33° fanteria Alessi ed i Ten.
Col. Leonardi e De Gregori del 34° fanteria
feriti e prigionieri…”.
“…Le tre gloriose bandiere del 33°, del 34°, del
28° artiglieria impersonarono il valore dei
fanti e degli artiglieri italiani e sono perciò
pienamente meritevoli della medaglia d’oro al
v.m.”.
“…Per il suo eroico comportamento la Livorno è
stata elogiata dal Comando italiano e da quello
germanico; è stata citata nel bollettino
italiano del 19 luglio; è stata ricordata infine
dagli stessi inglesi, sia alla radio, sia a
mezzo stampa (Times)”.
Nei 38 giorni dell’operazione Husky in
Sicilia, senza contare il numero delle vittime
civili, si ebbero 54.627 morti di cui 40.840
soldati italiani, 8.908 soldati tedeschi, e
4.299 soldati Alleati; nel novero del computo
finale delle perdite bisognerebbe aggiungere
anche i morti delle nazioni che affiancarono gli
anglo-americani nella liberazione dell’Isola, in
particolare quelli dei 490 soldati del Canada
che sono stati sepolti nel cimitero canadese di
Agira. Nuccio Mulè
![]()
AREA ARCHEOLOGICA ABBANDONATA DI
PIAZZA CALVARIO
Non è che sia tanto
facile fare il conto del numero
delle aeree archeologiche,
grandi e piccole che siano, che
si trovano nel territorio di
Gela e nelle sue vicinanze,
comprese quelle che si trovano
all’interno del centro storico
di Gela da tempo coperte da
interi quartieri di abitazione
come ad esempio le aree del
Borgo, di Villa Garibaldi e del
“Locu Baruni”. Comunque sia, di
tali aree, il cui numero senza
esagerazione arriva ad una
trentina, solamente tre, bene o
male, risultano fruibili; le
rimanenti si trovano
indolentemente nel più completo
abbandono.
Proviamo adesso a stilare
un elenco delle aree
archeologiche più importanti e
cominciamo da quelle vicino Gela
con le contrade
Desusino, Suor Marchesa,
Milingiana, Priorato, Muculufa,
Fontana Calda, Piano della
Fiera, Consi, Santa Croce, Fiume
di Mallo, ecc., a seguire
Bubbonia, Disueri, Monte Maio,
Monte Canalotti, Alzacudella,
Sofiana, Petrusa, Piano Camera,
Ponte Olivo, Grotticelle, Casa
Mastro, Castelluccio e
infine nella stessa Gela dove
troviamo
Manfria (con le contrade
I Lotti, Monumenti, e Insinga),
Acropoli di Molino a Vento,
Fortificazioni greche di
Caposoprano, Bagni Greci, via
Romagnoli, Bosco Littorio,
Bitalemi, Settefarini, Apa, via
Meli, Ex Stazione Ferroviaria,
Piazza Calvario,
Alemanna al Villaggio
Aldisio,
via Genova,
via Di Bartolo e molte altre
aeree del centro storico dove
gli affioramenti archeologici
stoltamente sono stati ricoperti
definitivamente. Per non
scrivere delle altre numerose
aree archeologiche di epoca
romana sulla Piana del Gela non
censite e sconosciute, spesso
appannaggio dei clandestini.
Eclatante e
impressionante è il caso
dell’area archeologica di Monte
Bubbonia, in territorio di
Mazzarino, dove, in un’ area
cimiteriale di epoca greca, i
tombaroli hanno fatto tutto
quello che hanno voluto
determinando un danno
incommensurabile al patrimonio
storico ed economico del nostro
territorio. E se ciò, ed altro
di peggio, accade non è sempre
responsabilità delle
Soprintendenze alle quali spesso
i finanziamenti regionali per
proteggere le aree archeologiche
arrivano col contagocce o non
arrivano per niente. Purtroppo,
i Comuni interessati (in
particolare Gela, Butera,
Niscemi e Mazzarino), ma
soprattutto il governo
regionale, non hanno messo
ancora a fuoco le reali
potenzialità dei giacimenti
culturali della nostra zona in
termini di sviluppo turistico,
economico ed occupazionale né
tantomeno vi sono i presupposti
per attuarlo.
Delle tante aree
archeologiche citate parliamo
adesso di Piazza Calvario,
ubicata in pieno centro storico
gelese, forse una delle più
sconosciute.
Nell’area
del cortile degli
ex granai del Palazzo Ducale,
nel quartiere Calvario, nel 1991
durante i lavori di scavo per la
realizzazione di un parcheggio
pubblico sono affiorate
consistenti vestigia d’antiche
strutture risalenti ad epoche
diverse; dopo il blocco dei
lavori da parte della
Soprintendenza, gli archeologi
hanno effettuato diverse trincee
mettendo allo scoperto una serie
di reperti ascrivibili ai
periodi medievale e greco
classico e arcaico; allora gli
scavi furono diretti da Katia
Ingoglia, oggi docente
dell’Università di Messina,
Sandro Amata e Stella Patitucci,
quest’ultima dell’Università di
Camerino.
La zona del Calvario era
già conosciuta come area sacra
per precedenti scavi effettuati
nei primi del Novecento da Paolo
Orsi, allora direttore del regio
Museo di Siracusa e, più di
mezzo secolo fa, dagli
archeologi Proff. Orlandini e
Adamesteanu, scavi da cui
vennero alla luce vestigia di
sacelli, decorazioni fittili e
terrecotte architettoniche; in
particolare furono evidenziati
materiali e strutture di epoca
greca e medievale, alcune
cisterne ed un muro largo 2 e
lungo 25 metri; in particolare
verso Nord furono individuate
delle strutture di epoca greca
riferibili ai periodi arcaico e
classico con due muri di un
edificio con zoccoli in pietrame
misto a ciottoli di fiume, un
pithos, molti frammenti di
ceramica, diversi frammenti di
antefisse sileniche e gorgoniche,
nonché un vestigio di strada
costruita con ciottoli di fiume,
larga 2 mt. e orientata in senso
Nord-Sud.
Altri scavi prossimi a
venire (chissà quando)
probabilmente porteranno alla
luce strutture e materiali
significativi che daranno agli
archeologi la possibilità di
ricostruire la storia di questo
luogo.
Intanto l’area da diversi
decenni è stata totalmente
abbandonata, sia per quanto
riguarda la continuazione degli
scavi archeologici sia per la
relativa pulizia; le erbacce,
infatti, hanno preso il
sopravvento ricoprendo tutta
l’area del cortile. E la cosa
paradossale è che oggi in questo
luogo non abbiamo né un’area
archeologica fruibile né un
parcheggio pubblico.
Infine, per quanto
riguarda il cantone pericolante
dell’antica torre dell’attiguo
castrum federiciano del XIII
sec. in piazza Calvario,
veramente c’è da diventare verdi
di rabbia nel momento in cui
esiste un transennamento dal
2008 (ai tempi delle demolizione
del “Muro della Vergogna”) che,
su denuncia di alcuni cittadini
del luogo tramite i mass media,
è stato recentemente ampliato
per motivi di sicurezza senza
che lo stesso cantone abbia
subito un benchè minimo
restauro. Per quanto tempo
rimarrà in questo stato
vergognoso? Se dovessimo
paragonarlo all’impianto di
protezione fatto a Porta Marina
nel 2005, quindici anni fa,
potremmo pensare che a piazza
Calvario ne passeranno di anni,
dal momento che ad oggi già ne
sono passati già quasi tredici.
Forse esiste la
possibilità che tali
transennamenti di protezione di
Porta Marina e di piazza
Calvario passino nella categoria
dei beni archeologici (sic)?!!
Nuccio Mulè
![]()
LA CARTOLINA DI
OGGI
I due
signorotti col “cacciottu”
in testa,
immortalati
nella cartolina
d'epoca di primo
Novecento qui
presentata,
stanno
percorrendo la
“Strada
Nazionale” (oggi
via Colombo) al
di fuori delle
mura di cinta in
una fredda e
soleggiata
mattinata
d'inverno, forse
per una salutare
passeggiata a
mare, e già
hanno superato
la prima curva a
gomito che segna
l'inizio del
quartiere
“Maggiore
Toselli”, un
tempo
denominato, ma
anche oggi dagli
anziani, “‘u
chianu de’
surfaredda”.
Notare in
piccolo sullo
sfondo al centro
della foto la
ciminiera dei “Liquirificio
Marletta” in
contrada Capo
Soprano sopra il
Caricatore, in
attività fino al
1940.
A
sinistra sulla
spiaggia si
vedono alcune
vele delle
barche della
flotta
commerciale
terranovese, a
quell'epoca
ricca e operosa.
Cinque
erano le porte
che, fino ai
primi decenni
dell'Ottocento,
permettevano
l'accesso alla
nostra città. Di
regola venivano
aperte all'alba
e chiuse
all'“Avemaria”,
tranne quella
secondaria a sud
delle mura, “u
purtusu” ovvero
il pertugio del
quartiere “Spirone”
(in alto a
destra sulla
cartolina), che
serviva per il
rientro dei
pescatori
terranovesi e
per le ronde
militari in
tempo di pirati.
A partire
dalla seconda
metà del
Settecento,
cessati i
pericoli delle
invasioni
barbaresche, in
determinati
punti delle mura
della città
cominciarono ad
aprirsi delle
brecce per
articolare
meglio il
traffico
veicolare
costituito
allora da
diverse migliaia
di carretti e
quadrupedi. Le
prime brecce
realizzate sulle
mura medievali
furono quelle
dei quartieri di
San Giovanni e
San Francesco.
In quest'ultimo
quartiere la
breccia fu
aperta a lato
del convento dei
Padri
Conventuali,
diroccato negli
anni Cinquanta
per dar posto
all'attuale
Municipio, e da
essa si fece
continuare fino
a mare per
allungare la
Strada Nazionale
Marina, oggi via
Cristoforo
Colombo, sul
tracciato di una
sinuosa trazzera
antica che
portava alla
rada di
Terranova dove
esistevano
alcuni opifici e
diverse
industrie
artigianali come
quelle dei “canalara”
(di cui sullo
sfondo della
cartolina si
vede il fumo dei
loro forni per
cuocere
l’argilla), dei
“calafati” e
degli “scupara”:
di tali
industrie
rimaneva solo
una ciminiera
con la scritta
“DUCE”, contigua
allora
all’albergo
Mediterraneo,
che fu demolita
impunemente nel
1995.
Nuccio Mulè
COMMEMORAZIONE
DEL SENATORE
GELESE COMM.
VINCENZO D’ANNA
Dei
personaggi
gelesi che nel
tempo si sono
distinti per il
prestigio del
loro titolo e
del loro
operato, oggi
qui annoveriamo
e scriviamo di
un conterraneo
che è stato
dimenticato
totalmente. Si
tratta del
Senatore,
dell’allora
Regno d’Italia,
Comm. Vincenzo
D’Anna.
Vincenzo
D’Anna, di
Giuseppe e di
Catalano Rosalia
nacque a Gela,
allora
Terranova, il 1°
ottobre del
1831; nulla si
conosce della
sua fanciullezza
né dei suoi
studi prima di
conseguire la
laurea in
ingegneria,
però, si sa che
entrò ancora
giovane nella
carriera degli
uffici pubblici
raggiungendo il
grado di
Direttore
Generale nel
Ministero dei
Lavori Pubblici
e Presidente di
Sezione nel
Consiglio di
Stato.
Nell’aprile del
1886 il Comm.
Vincenzo D’Anna,
dopo
quarant’anni di
assenza ritornò
per una
rimpatriata a
Terranova di
Sicilia; il
Sindaco, conte
Nicola
Panebianco, per
l’occasione
organizzò dei
festeggiamenti
per l’illustre
concittadino
oltre a un
banchetto con le
personalità
della città nel
locale del “Liceo
Convitto
Principessa
Pignatelli alle
ore sette
pomeridiane del
24 aprile 1886…”.
“Conosciuto
e stimato in
patria per
carattere
indipendente e
leale…”,
Vincenzo D'Anna
nel novembre
1892 venne
elevato alla
dignità
senatoria,
grazie
all’apprezzamento
della “Maestà
del Re come
cittadino
liberale e
coscienzioso,
dotato di grande
perizia nei vari
rami delle
pubbliche
amministrazioni,
una indefessa
operosità e una
profonda
devozione alla
cosa pubblica…”.
Chiamato alla
presidenza della
II sezione del
Consiglio di
Stato, la sua
grande
conoscenza della
legislazione e
della pratica
dei lavori
pubblici, lo
pose in grado di
rendere i più
importanti
servizi.
Sposato
con tale Maria
Maddalena
Bonfigli, da cui
ebbe otto figli,
il Comm.
Vincenzo D’Anna
morì a Roma il
27 giugno 1902.
Commemorazione
al Senato
Durante
la
commemorazione
della sua
scomparsa
nell’aula del
Senato, l’allora
Presidente
Giuseppe Saracco
così si
espresse: “Signori
senatori! Ho il
dolore di
annunziare al
Senato la
perdita di un
ottimo collega,
il Comm. D'Anna
Vincenzo
avvenuta ieri
nelle ore
pomeridiane, in
Roma. …Colpito
da morbo
crudele, egli
non mancò
tuttavia, finchè
gli durarono le
forze, di
attendere ai
suoi doveri,
malgrado le dure
sofferenze, il
bravo collega si
trascinava a
stento in
quest'aula per
assistere alle
sedute del
Senato. Ma
l'ultima ora del
buono e valoroso
collega si
annunziava
visibilmente, e
Vincenzo D'Anna
mori serenamente
fra il compianto
dei congiunti, o
di quanti ebbero
maggiormente
opportunità di
apprezzarne le
qualità di mente
o di cuore. Lo
Stato perde in
lui uno dei più
intelligenti e
laboriosi
funzionari e noi
sentiamo a
nostra volta di
aver perduto in
Vincenzo D'Anna
uno dei più
distinti ed
operosi compagni
che sono
l'ornamento di
questo nostro
Senato. Ond'io,
a nome di voi
tutti, mi
compiaccio di
deporre sul
feretro del
valoroso collega
l'augurio, che
Dio conceda a
quell'anima cosi
travagliata in
vita la pace ed
il riposo eterno
del giusto.”
Al Presidente
Saracco
seguirono gli
interventi, qui
di seguito
riportati, del
senatore
Giuseppe Saredo,
Presidente del
Consiglio di
Stato, e del
Ministro
dell’Interno
Senatore
Giovanni
Giolitti, lo
stesso che
diverse volte fu
presidente del
Consiglio dei
Ministri nel
periodo storico
che è oggi
definito come
"età
giolittiana".
Senatore
Giuseppe Saredo:
“Mi
sia consentito
di aggiungere
una parola alla
eloquente
commemorazione
del nostro
Presidente già
fatta del
perduto collega.
Venuto al
Consiglio di
Stato dopo lunga
ed onorata
carriera egli vi
ha portato una
grande perizia
nei vari rami
delle pubbliche
amministrazioni,
una indefessa
operosità, una
profonda
devozione alla
cosa pubblica.
Chiamato alla
presidenza della
II sezione del
Consiglio di
Stato, la sua
grande
conoscenza della
legislazione e
della pratica
dei lavori
pubblici, lo
pose in grado di
rendere allo
Stato i più
segnalati
servizi. A nome
del Consiglio di
Stato ringrazio
il nostro
illustre
Presidente dei
meritati elogi
che ha tributato
alla memoria del
compianto
collega, elogi
che giungeranno
come non lieve
conforto alla
desolata
famiglia.”
Senatore
Giovanni
Giolitti: “A
nome del Governo
mi associo ai
sentimenti di
rimpianto
espressi dal
presidente del
Senato e dal
senatore Saredo,
presidente del
Consiglio di
Stato. Io che
ebbi l'onore di
essere per molti
anni collega del
rimpianto
senatore D'Anna
come membro del
Consiglio di
Stato, ho avuto
occasione di
conoscere quanto
valesse
quell'uomo e per
ingegno e per
carattere e per
operosità, ed in
lui io ho
ammirato non
solamente il
funzionario, ma
anche l'egregio
padre di
famiglia, l'uomo
che deve tutto a
se stesso,
perché egli
dalla fortuna
nulla aveva
avuto e la
posizione
altissima che si
procurò nel
Consiglio di
Stato e nel
Senato è dovuta
esclusivamente
all'operosità
sua e alla stima
che tutti i suoi
colleghi avevano
per il suo
ingegno e
carattere.
Commemorazione
alla Camera
Oltre
alla Camera del
Senato, nello
stesso giorno
anche in quella
dei Deputati fu
commemorato il
Comm. D’anna. Di
tale
commemorazione
qui di seguito
si riporta uno
stralcio.
Giuseppe
Biancheri,
Presidente della
Camera: “Comunico
alla Camera che
dalla Presidenza
del Senato del
Regno mi è
pervenuta la
seguente
lettera: “Compio
il doloroso
ufficio di
annunziare
all'Eccellenza
Vostra la morte
dell'onorevole
senatore D'Anna
commendatore
Vincenzo,
avvenuta ieri,
27, in questa
città. Le
significo in
pari tempo che
il trasporto
della salma avrà
luogo domattina,
29, alle ore 9 e
mezzo, partendo
dall'abitazione
del defunto,
Corso Vittorio
Emanuele n. 209.”
Prese la
parola Il
deputato
Saracco: “La
Camera non può
non apprendere
con dolore la
perdita del
commendatore
D'Anna, che fu
per diverse
Legislature
nostro collega,
che occupò posti
eminenti nelle
pubbliche
Amministrazioni
e rese eminenti
servizi al
Paese. Sono
certo che la
Camera si
associerà a me
nell'esprimere
sincere
condoglianze
alla famiglia
dell'estinto.
{Bene!)”.
Seguì il
deputato Ignazio
Testasecca: “Faccio
plauso alle
nobili parole
che l'onorevole
presidente ha
pronunziato per
commemorare il
compianto
senatore D'Anna,
il quale, nato
in Terranova di
Sicilia,
apparteneva alla
provincia di
Caltanissetta,
che ho l'onore
di
rappresentare.
Mi associo con
tutto il cuore
alle parole
dette
dall'onorevole
presidente e
prego la Camera
di mandare le
condoglianze
alla famiglia,
anche a nome
della provincia
di
Caltanissetta.”.
Subito
dopo gli
interventi
furono scelti i
componenti la
Commissione che
fu incaricata di
rappresentare,
assieme alla
Presidenza, la
Camera
all'accompagnamento
funebre
dell’indomani
alle 9,30.
Il Comm.
Vincenzo D’Anna
secondo alcune
cronache
storiche locali
non confermate,
durante la
carica di
Direttore Capo
dei Lavori
Pubblici, nella
seconda metà
dell’Ottocento
si operò per la
costruzione a
Terranova del
Ponte ripieno
del Borgo sul
Vallone
Pasqualello, a
nord della Villa
comunale, del
tratto che
tuttora
congiunge via
Matteotti a via
Cappuccini.
Incarichi e
onorificenze del
Comm. Vincenzo
D’Anna
Funzionario
amministrativo e
Magistrato,
ricoprì le
cariche di
Direttore Capo
dei Lavori
Pubblici nel
Consiglio dei
Ragionieri del
Regno (1877),
Direttore
Generale di
Ponti e Strade
del Ministero
dei Lavori
Pubblici (1879),
Consigliere di
Stato (27
settembre 1882),
Consigliere
della Corte di
Cassazione di
Palermo (1882,
1884),
Presidente di
sezione del
Consiglio di
Stato (30
dicembre 1892),
Membro della
Commissione di
vigilanza al
Debito Pubblico.
Il Comm.
Vincenzo D’Anna,
Deputato nella
XXI Legislatura
e Senatore nella
XVI Legislatura,
ebbe le seguenti
onorificenze:
Cavaliere
dell'Ordine dei
SS. Maurizio e
Lazzaro (2
giugno 1872);
Ufficiale
dell'Ordine dei
SS. Maurizio e
Lazzaro (30
gennaio 1881);
Commendatore
dell'Ordine dei
SS. Maurizio e
Lazzaro (31
marzo 1890);
Ufficiale
dell'Ordine
della Corona
d'Italia (5
gennaio 1873);
Commendatore
dell'Ordine
della Corona
d'Italia; Grande
ufficiale
dell'Ordine
della Corona
d'Italia (27
giugno 1895).
|